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Il prete contro la ‘ndrangheta che piace ai laici
Il Fatto Quotidiano
13.11.2011
“E io che c’entro?” sembra dire. E invece c’entra eccome. Un
applauso lungo, lunghissimo lo avverte che le persone che stipano il cinema-teatro
Italia a Maida, comune di quattromila abitanti in provincia di Catanzaro, sanno
benissimo chi è quel signore magro e lungo vestito di scuro, ritto sul palco e
con lo sguardo un po’ smarrito verso il soffitto altissimo. Sanno e fanno il
tifo. Così alla fine lui si commuove, mentre ritira il premio letterario “Feudo
di Maida”. Notizia per il lettore: il tipo sul palco fa il prete. “Quanti
preti”, sibila in platea un assessore che non dev’essere propriamente un
baciapile, “però meno male che ci sono”. Don Giacomo Panizza in effetti ha una
storia particolare. Che piace anche ai laici. Mentre dà fastidio alla
‘ndrangheta. Una storia incominciata lontano dalla Calabria e anche da conventi
e seminari. Prendete quindi la Brescia degli anni sessanta. Uno dei poli industriali
lombardi, un sindacato di fabbrica fortissimo, specie nel settore siderurgico e
metalmeccanico. E metteteci dentro un operaio che si batte per i diritti di
tutti e vuole fare la rivoluzione. La vuole così radicalmente che sceglie di
lottare per il vangelo in terra. E quindi, proprio mentre molti giovani mollano
parrocchie e seminari per immergere l’anima nel sessantotto, fa il percorso
contrario: dalla fabbrica al seminario. E uno. Poi arriva il due, ovvero il
secondo viaggio controcorrente. Accade quando gli chiedono di farsi carico dell’assistenza
di un gruppo di giovani disabili. Accetta subito, anche se c’è di mezzo il piccolo
particolare che quel gruppo si trova in Calabria, a Lamezia Terme, dove stenta
a trovare spazi, rispetto e sbocchi lavorativi. Il prete venuto dal nord fonda
la “Comunità progetto sud” e inizia la sua avventura. Non ne vuole sapere di
legarsi a questa o quella corrente di partito, di farsi portatore di voti per
un onorevole. Chiede a testa alta diritti per i suoi ragazzi. Finché accetta la
sfida che nemmeno i vigili urbani del posto hanno il coraggio di accettare: l’ingresso
in un immobile confiscato alla famiglia Torcasio, clan tra i più duri della
zona. E che -esattamente questo temono i vigili- faranno vedere i sorci verdi a
qualunque inquilino osi accamparsi “per legge” nelle loro proprietà. Così don
Giacomo si trova l’edificio letteralmente svuotato, persino dei rubinetti e dei
sanitari. Non si perde d’animo e lentamente, sette anni ci mette, ristruttura
tutto, ovviamente sistemando ogni particolare a misura dei suoi assistiti, a
partire dagli interruttori, che devono essere ad altezza di carrozzella.
Nessuna spavalderia. Cerca di muoversi con discrezione, senza far rumore. Il guaio
è che ogni giorno deve segnalare la sua presenza suonando un campanello ostile.
La casa sta infatti (succedono spesso queste assurdità) dentro uno spazio
recintato di proprietà dei Torcasio. E quindi è costretto a chiedere ogni volta
il permesso a chi lo vede come un intruso comunista, altro che prete.
Ma don Giacomo ha dalla sua una forza straordinaria: gli ospiti del centro. Che
capiscono benissimo la partita in cui sono finiti. E la affrontano senza timori,
in fondo la vita li ha già privati di molte cose. Insomma, di qua il prete e i
disabili, di là il boss che non tollera i “mongoloidi” e la paura che trattiene
molti operatori dal dare aiuto o lavoro agli ospiti della comunità. Fatto sta
che esseri umani abituati a vivere da
segregati scoprono i loro diritti. Fanno degli scioperi, perfino. Il vento del
nord (il nord di una volta) scompiglia le logiche dei favori e dei ricatti.
Minacce? Be’, ci sono anche quelle. Meglio non si faccia vedere dal barbiere, gli
suggeriscono con malizia; là, come hanno insegnato il cinema e la letteratura,
uccidere è un gioco da ragazzi. Perciò qualcuno pensa pure che a questo punto è
meglio se gli si dà una scorta. Che arriva. Anche perché questa è la storia “di
base” di don Giacomo. Ma intorno ne sono nate tante, di lotte e di invenzioni
sociali, per quel meccanismo da moltiplicazione dei pani e dei pesci che tanto
sembra affascinare i preti da vangelo. Per questo l’applauso lungo,
torrenziale, da lui inaspettato, che gli arriva fin sul palco. Lui giura che
stare qui gli piace, perché qui ha conosciuto “purgatorio, inferno e paradiso”.
E fa l’orgoglioso elenco delle cose che gli piacciono, di queste terre meridionali: “chi se ne sta a mani nude, disarmate; chi fa il padrino senza fare il padrone, chi fa doni per amicizia e non per legarti al suo clan”, ma anche “le madri che non dimenticano i figli, qualunque cosa abbiano combinato”e quelle che “supplicano i boss di ‘ndrangheta di svelare il luogo dove hanno buttato o seppellito i loro figli, spariti di lupara bianca, per portarci un fiore”. E pure quelli “che in tribunale si ricordano le facce e le parole di chi ha chiesto loro il pizzo, indicandoli davanti a tutti”. Ha trovato il tempo anche per scrivere un’infinità di articoli, saggi e libri; ultimamente è uscita da Feltrinelli una sua intervista con Goffredo Fofi, prefazione ammirata di Roberto Saviano. La scrittura, in fondo non richiede faccia tosta. Leopardi Chiriaco (Leopardi è il nome, in famiglia hanno pure un Dante…), segretario del “Feudo di Maida”, lo ammira anche per questo: “lo abbiamo premiato per la sua opera letteraria ma soprattutto per quel che ha fatto e per la sua modestia; non ama che si parli di lui, lavora in silenzio, ma mi creda, ha cambiato la nostra mentalità”. Insomma, meglio averli questi preti; aveva ragione l’assessore.
Nando
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