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Non licenzio i miei operai. Storia di un imprenditore brianzolo
Il Fatto Quotidiano
20.11.2011
Di notte non ci dormiva. La sola idea di mettere in cassa
integrazione o addirittura di licenziare qualcuno dei suoi “ragazzi”, come
chiama i suoi dipendenti, lo faceva rigirare nel letto. Eppure la crisi
picchiava, come ovunque. Una crisi “terrificante”, giunta al suo punto peggiore
nel 2009, quando ci fu “un crollo verticale delle vendite”. Vincenzo
Sgambetterra ha 57 anni e una piccola impresa, la Laryo, che vende macchine per
il montaggio automatico di schede elettroniche. L’ha fondata nel 2000,
decidendo dopo decenni di lavoro dipendente di mettersi in proprio. Sede a
Villasanta, cuore della Brianza, proprio vicino al parco di Monza, tanto “che
si sentono rombare le auto quando fanno le prove del Gran Premio”. A qualche
chilometro c’è Pessano con Bornago, il paese dove abita. Accoglie con
soddisfazione l’interlocutore a cui è giunta voce di questo piccolo
imprenditore anomalo, che pur di non chiudere l’azienda o dichiarare lo stato
di crisi ha rinunciato per mesi al suo stipendio. “In Brianza sono state molte
le aziende del nostro settore che hanno chiuso o hanno fatto ricorso alla cassa
integrazione. Guardi, oggi posso dirlo con orgoglio. Qui in Laryo nessuno dei
dipendenti ha mai avuto un’ora di cassa né un euro di riduzione di stipendio. E
guardi che in questa situazione fare accordi con il sindacato sarebbe stato
abbastanza facile. Abbiamo deciso così tutti e tre i soci. Io, lo Stefano Dossi
che si occupa della parte tecnica e il Fabrizio Bassanello che si occupa delle
vendite. E sa perché? Perché io
soprattutto ero convinto che la crisi se ne sarebbe andata, così come era
venuta. Ho sempre creduto nel sistema Italia. Per questo non mi sono arreso.
Abbiamo preferito rinunciare allo stipendio, pagare di tasca nostra carburante,
viaggi e alberghi, e noi viaggiamo tanto, pur di non togliere liquidità all’azienda.
I nostri sette dipendenti hanno capito il messaggio. Quando hanno visto le
difficoltà non sono saltati giù dalla nave, non hanno cercato un posto altrove,
come potevano, ma sono rimasti uniti. Non hanno fatto il discorso
dipendente-padrone. Questa, prima delle macchine, è stata la forza, è il vero
patrimonio dell’impresa. Il punto di partenza non per salvarla, ma per rilanciarla proprio in questo periodo. Una
scelta controcorrente, gli altri ci dicevano che stavamo facendo un’autentica
follia. Ma io avevo un progetto: potenziare la nostra presenza, diventare non
solo venditori di macchine ma diffusori di cultura tecnica. Abbiamo preso in
leasing un immobile per farci dei meeting sui bisogni di conoscenza, per
organizzare dei giorni della tecnologia; siamo diventati partner dell’IPC,
un’organizzazione americana che detta le regole per i collaudi e l’accettazione
delle componenti e ne indica le caratteristiche, in modo da avere e fornire
supporto al livello più alto possibile. Così abbiamo offerto un’opportunità
importantissima ai clienti, perché purtroppo è ancora molto diffuso l’atteggiamento
del ghepensimì, un vero guaio nel settore del montaggio elettronico. Abbiamo
convinto anche due partner ad affidarci la distribuzione europea delle loro
macchine. E le sembrerà strano in Italia, ma le banche hanno capito che avevamo
un progetto e non ci hanno abbandonato. Mentre i clienti ci hanno guardato con ancora
maggior fiducia. Come è andata? Alla grande. Forse esagero ma ,insomma, dal
2009 al 2010 abbiamo raddoppiato il fatturato e quest’anno siamo già oltre il
50 per cento in più rispetto al 2010. E il rischio dei licenziamenti sembra
svanito”.
Il signor Sgambetterra è appena tornato dalla fiera di Monaco, “ l’unica che ci
è rimasta nel settore”. Parla con amore contagioso del suo lavoro, precisa che loro
non vendono solo ma impreziosiscono ciò che vendono, realizzando paste speciali
per garantire una saldatura sotto vuoto delle schede. Spiega con minuzia
scientifica le attenzioni che bisogna avere per quelle destinate a usi militari
o aerospaziali. Narra la sua vita da tecnico. Arrivò a Milano nel ’68, partito
da Cittanova, provincia di Reggio Calabria. Collaudatore all’Italtel per
venticinque anni (“grande esperienza ma con i momenti bruttissimi del
terrorismo”), aggiornamenti intensi negli Stati Uniti sui primi modelli di
circuiti stampati, un impiego (“forse il più formativo”) all’Intertecnica e poi
il licenziamento quando arrivò la crisi del Golfo, nel ’91.
“Una crisi pesantissima. Fu un trauma, mi creda. Dieci mesi senza lavoro. Penso che quel che ho passato allora abbia inciso sulla mia scelta di non fare passare altrettanto oggi ai miei dipendenti. Sa, vanno dai 23 ai 47 anni, e ognuno ha i suoi problemi di famiglia. Ora ho un desiderio: vedere un sistema Italia all’avanguardia. Vorrei che in questo paese si desse davvero una mano alle imprese che credono nel lavoro. A partire dal fisco. Mi sono confrontato con i miei colleghi a Monaco. Le nostre tasse sono veramente troppo alte. Quanto ai sogni, io non sono uno che metta il denaro in cima ai propri valori. I sogni li riservo a Giovanna e Valentina, le mie figlie. Anche se poi certo un desiderio grande, più privato, ce l’ho. Da realizzare con mia moglie, Maria Neve. Bellissimo nome, vero? E pensi che lei vuol farsi chiamare Marinella… Be’, vorrei prendere un camper, io amo le tende e la natura. E poi andare con lei a rivedere tutti i luoghi del mondo in cui sono stato per lavoro e che non ho mai potuto visitare per mancanza di tempo. C’è un fiordo in Svezia che mi ricordo ancora…”.
Nando
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