Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono utilizzati cookie di terze parti per il monitoraggio degli accessi e la visualizzazione di video. Per saperne di più e leggere come disabilitarne l'uso, consulta l'informativa estesa sull'uso dei cookie.AccettoLeggi di più
Bocca e il Generale
Il Fatto Quotidiano
27.12.2011
Il generale e il giornalista si trovarono a tu per tu il 9
agosto del 1982. Nell’ufficio in cui il nuovo prefetto di Palermo era arrivato
lasciando l’Arma poco più di tre mesi prima. Il generale non amava le
interviste, eppure quella l’aveva chiesta lui. Per drammatica urgenza. Nel cuore dei cento giorni in cui, davanti a
un’Italia imbambolata dai mondiali di calcio, si discuteva pubblicamente e
incredibilmente dell’opportunità di eliminarlo. Aveva voluto un giornale e un
giornalista non sospetti di benevolenza acritica nei suoi confronti. Bocca
aveva espresso più volte sulla “Repubblica” le sue perplessità su alcuni episodi
della lotta al terrorismo. Era dunque l’interlocutore ideale per dare
rappresentazione oggettiva di quel che stava accadendo a Palermo, dello scontro
che si giocava sui poteri di coordinamento della lotta alla mafia prima
promessi e poi mai dati al prefetto. Il giornalista incuriosito salì fino
all’ufficio di “sua eccellenza” per corridoi deserti, senza incontrare più
nessuno dopo il piantone all’ingresso. E conoscendo bene i sistemi di sicurezza
dell’antiterrorismo intuì al volo l’isolamento del suo ospite. Il generale gli
spiegò come stava cambiando la geografia del potere mafioso, chiamando per la
prima volta in causa i cavalieri del lavoro di Catania. Gli disse (nel 1982…)
che la mafia non poteva essere combattuta solo nel “pascolo palermitano” e che
gli interessava combattere l’ “accumulazione primitiva” mafiosa, le vie del riciclaggio, “le lire rubate,
estorte che architetti e grafici di chiara fama hanno trasformato in case
moderne o alberghi e ristoranti à la page”.
Poi gli consegnò due messaggi. Il primo: occorreva assicurare ai cittadini i
diritti confiscati loro dalla mafia, così da portarli dalla parte dello Stato.
Il secondo: aveva capito la “nuova regola del gioco”. Si viene uccisi quando si
diventa pericolosi e si è soli. E’ questa la combinazione mortale, spiegò. In
famiglia disse: “credo che sarà un’intervista storica”. Lo fu davvero.
Bocca ascoltò con rispetto e interesse. Si punzecchiarono più volte sul
garantismo, come due coetanei celebri che scoprissero in quel momento di potere
essere amici. L’intervista uscì il 10 agosto, ventitre giorni prima che tutto
finisse in un inferno di fuoco. Bocca vi definiva il suo interlocutore un
“singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di diplomazie italiane ma con
squarci di candori risorgimentali. Difficile da capire”. Invece lo capì
benissimo. Dopo la strage del 3 settembre sentì il dovere di non dimenticare
quel che aveva visto e sentito; di difendere la memoria del generale che lui aveva
saputo capire in poche ore, oltre ogni pregiudizio. Paradossalmente ne diventò
amico dopo la morte, rimettendo idealmente insieme le molte cose che avevano in
comune: la data e la terra di nascita, il Piemonte risorgimentale, la
Resistenza, l’ostilità verso il potere mafioso. Non perse mai occasione per
citarlo. Per risarcire il coetaneo potente e abbandonato che un giorno sempre
più lontano gli aveva chiesto aiuto.
Nando
Next ArticleGiovani coppie da libreria. E il derby Bocca-Montanelli