Greta, la studentessa senza il tappeto rosso

 

Il Fatto Quotidiano
8.1.2012
La sera di Natale ha lavorato. E pure quella del 26. E,
prima, quelle del 22 e del 23. E poi quelle del 28, 29 e 30. “Ma la sera della
vigilia e la notte di capodanno no, quindi non mi lamento. Quanto ho preso? Sei
euro e mezzo l’ora. Se li mette insieme sono dei bei soldini, sa?”. Greta è
così. Conosciuta per caso. Dopo averla avuta come allieva per tutto un corso.
E’ un viaggio doppio, stesso autobus, stessa coincidenza con il tram che porta
verso l’estrema periferia sud di Milano, che fa scoprire nell’allieva le
inquietudini, le speranze e le fatiche di una generazione a cui il futuro
vorrebbe sbattere la porta in faccia. “Vado a lavorare la sera ai bar
dell’Autogrill al Forum di Assago, quando ci sono i concerti. Al secondo
anello. Non è un bar fisso, ce ne sono diversi della stessa gestione. Ci fanno
ruotare. Cappellino e magliette rossi. Ci chiamano a seconda delle esigenze. Stai
dietro il bancone e servi caffè, panini e birre a tutto spiano. Insomma, è come
se fossimo camerieri. La gente non è molto educata. Diciamo che quasi la metà
dei clienti, soprattutto quelli sui quaranta, ci trattano male. Le faccio un esempio.
Noi abbiamo l’ordine di vendere solo bottiglie stappate, è la regola dei
pubblici spettacoli. Ma non c’è verso che certi clienti lo capiscano, le
vorrebbero con il tappo per mettersele nelle borse. E allora ti dicono che sei
incompetente, che non sai fare il tuo mestiere. Anche se c’è tanto di cartelli
che avvisano. Una sera ho detto a uno ‘ma secondo lei io mi diverto a stare qui
a stappare? Le vuol vedere le mia mani come sono rosse?’ Sono scorbutici, sempre
sul piede di guerra. Diventano cattivi, non mi viene altra parola. Solo perché
siamo ragazzi. Ti fanno passare la poesia del lavorare. A volte poi se vedono
un immigrato al banco sono ancor più duri, gli parlano sillabando come se lui
non capisse, mentre ci sono senegalesi e albanesi che sono fior di studenti
universitari. Allora dobbiamo arrivare noi in soccorso.
Eh, il clima dei concerti…Meno male che a volte possiamo mettere la faccia
fuori e andarci a vedere lo spettacolo qualche minuto. Le ultime erano le
serate della Pausini, quando ero piccola mi piaceva un sacco. Poi i gusti
cambiano. Sempre ‘ste frasi, ‘Grazie, siete fantastici’. A volte scopri che cantanti
famosi dal vivo sono inascoltabili. Altre volte resti affascinata.  Ho scoperto Paul Mc Cartney. Formidabile, lo
conoscevo solo per i Beatles. Poi mi sono visto questo signore, sarà sui
settanta, no?, che ha tenuto quattro ore con un’energia incredibile.
Al Forum vado con due o tre coetanee. Qualche volta, se ci chiama il Teatro
della Luna, andiamo più eleganti, con la camicia e i pantaloni buoni. Usiamo
l’auto dei genitori a turno perché la benzina costa. Abito ad Opera, sto lì con
mia madre che fa la parrucchiera, mentre mio padre ha una ditta di confezioni.
Ho passato la vita con mia madre. Prima l’accompagnavo quando andava dalle
clienti nelle case, fa quel mestiere da sempre. Iniziò, come si diceva una
volta,  facendo ‘la piccinina’, quella
che puliva i capelli per terra. Da bambina stavo sempre con lei dopo la scuola,
fino alla chiusura serale del negozio. E anche d’estate. Forse è lì che ho
imparato a trattare con i clienti, con la gente più grande. Ma io non ho voluto
seguire la sua strada, anche se da qualche anno ha un negozio tutto suo. Come
manualità sono un cane. Ho scelto il liceo sociopiscopedagogico, perché mi
interessano i fatti della società. Leggo, leggo molto, i libri sono il mio
hobby, il mio proponimento per il 2012 è di leggere di più. L’ho fatto a Pavia,
il liceo, è poco distante da Opera; a Milano i miei avevano paura delle
occupazioni e dei picchetti. Poi però sono voluta tornare subito a Milano. Perché
mi sono iscritta a scienze politiche? Un po’ per esclusione. Certo mi sarebbe
piaciuto fare medicina, ma sapevo in partenza che non me lo potevo permettere.
Ingegneria o fisica no perché per le materie scientifiche sono negata. Tra i
corsi umanistici preferivo quello di comunicazione e società. Io vorrei
lavorare comunque nell’informazione, rendermi utile alla società. Non capisco
questa campagna contro noi di comunicazione, quelli di scienza delle merendine,
come se fossimo scarti, senza motivazioni.

 

Io ce l’ho eccome la motivazione. Vorrei fare il master in editoria libraria o quello in giornalismo ‘Walter Tobagi’. Una specializzazione vera voglio, anche se so che poi il lavoro si impara sul lavoro. L’università me la pago con i miei soldi, ho la soddisfazione che per le tasse e il resto sono quasi autosufficiente, e metto anche da parte qualcosa per il master , chissà. Sarà difficile, ma alla fine penso che questi studi mi daranno qualcosa di buono. Sa, nella mia famiglia sono la prima che va all’università”. Il freddo del tardo pomeriggio entra a sciabolate a ogni fermata dentro il tram. Greta si protegge dentro un giubbotto corto, chiamando in soccorso anche i lunghi capelli neri. Racconta il suo ottimismo di giovane che non campa di rendita, che lotta con i pregiudizi che gravano sulla sua generazione, sia che lavori dietro il bancone di un bar zeppo di gente infoiata, sia che studi in università seguendo le sue passioni. “Faccio ventidue anni a marzo”, comunica con la serenità di chi non ha vissuto nella bambagia, e sa benissimo che non troverà tappeti rossi srotolati sulla sua strada. Cortina è roba d’altri giovani. E anche le sere natalizie. Saluta ridendo il suo professore che scende. Qui finisce la chiacchierata. Il cognome di Greta? Dimenticavo:  La Gioiosa. Incredibile, eh?

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