Vincenzo Consolo, la letteratura e l’impegno

 Il Fatto Quotidiano
22.1.2012
Vincenzo Consolo non c’è più. Una traccia di bella
letteratura, di libertà intellettuale e di impegno civile è quel che lascia
all’Italia in cerca di un nuovo e faticoso ubi
consistam
. Consolo appartiene di diritto all’élite della narrativa del
novecento. Il gusto di una fantasia al tempo stesso alata e controllata, le
radici saldissime nella realtà e nella storia, la levigazione della parola,
terreno di sperimentazione e di incessante ritorno all’antico. E’ stato un
grande scrittore, Consolo. Orgogliosamente conscio del valore della sua
professione e per questo misurato e rado nella sua produzione. Che qualcuno
amava meno per via di quel suo giocare d’azzardo con gli aggettivi e che altri
invece, proprio per questo, consideravano il più grande italiano contemporaneo.
Il sorriso dell’ignoto marinaio è
stato considerato il suo capolavoro. Ma Lo
spasimo di Palermo
, pur tanto diverso nella concezione e nel respiro
narrativo, non gli è da meno. E a questi titoli vanno aggiunti almeno Retablo, Nottetempo, casa per casa, Le
pietre di Pantalica
e Lunaria,
racconto teatrale. Ma la vita, la storia di Consolo non si possono riassumere
nei suoi romanzi. La sua è parte integrante della grande vicenda dei letterati
siciliani a Milano, dove egli giunse negli anni sessanta dopo avere vinto un
concorso alla Rai. Quasimodo, Vittorini, Consolo ma anche Guglielmino, lo
storico della letteratura. La Sicilia lontana, la stessa dei manovali con le
valigie di cartone che cercavano rifugio nelle coree, nutriva la lingua e la cultura della città che tutti
ospitava. Consolo li vedeva, gli immigrati meridionali, dalla sua prima casa in
piazza Sant’Ambrogio. Davanti al centro orientamento immigrati, dove
brulicavano. Ma anche, così diceva, quando uscivano i poliziotti dalla caserma
della celere. La Sicilia restò per lui sempre la metafora, il riferimento, il
serbatoio inesauribile di memorie e fantasie. La Sicilia del fascismo di Nottetempo, la Sicilia contadina in
agonia delle Pietre di Pantalica, la
Sicilia dei giudici eroi dello Spasimo.
Palermo come tolda mentale del suo sguardo cosmopolita.
Si formò come intellettuale grazie a una avidità di cultura capace di battere distanze
e penurie. Un paio d’anni fa, parlando di Danilo Dolci, mi confidò di avere
appena riletto Banditi a Partinico e
di avere provato angoscia ripensando alle condizioni di vita dei bambini
siciliani di allora. E aggiunse che a metà degli anni cinquanta era voluto
andare a conoscere Dolci, “un mito per molti di noi”, spinto dalla curiosità di
sapere tutto della Sicilia occidentale, lui di Sant’Agata di Militello, “terra
non di feudi, ma di piccola proprietà contadina”. Raccontò di avere preso il
treno per anni per andare a scoprire le novità  alla libreria Flaccovio di Palermo o alla
libreria D’Anna di Messina. E forse fu in quella Sicilia di mafia, che nemmeno
la fine del latifondo aveva incrinato, che maturò la sua diffidenza per i
poteri dello Stato. Ricordava come un monumento all’ingiustizia “la triade del
potere” di allora: Scelba, il cardinal Ruffini e il prefetto di Palermo, Angelo
Vicari, che era di Sant’Agata, il suo paese.
 

Fu questa inquietudine, questo spirito di rivolta placido e irriducibile, che lo portò a non accontentarsi mai del suo ruolo di scrittore. A cercare di partecipare sempre alla vita pubblica. Con i suoi articoli, dal “Messaggero” all’”Unità”di Colombo e Padellaro.  Con i dibattiti. O sulla strada. La stagione dei girotondi lo ebbe come protagonista, sin dalle manifestazioni più piccole. Ricordo un tardo pomeriggio dell’autunno del 2001 davanti al palazzo di Giustizia di Milano. Trecento persone, non di più. Venne annunciata Lella Costa e poi “lo scrittore Vincenzo Consolo”. Alcune insegnanti si emozionarono al solo nome cercando di identificarlo nella piccola folla, poiché, lettrici fedelissime, non lo avevano mai visto in volto. Ci fu sempre, né volle abbandonare mai Milano, anche se dopo la vittoria della Lega aveva annunciato con amarezza che se ne sarebbe andato via. Alle manifestazioni il suo fisico minuto e generoso si mescolava in permanenza -e questo era un suo tratto distintivo- con le persone più sconosciute. Testimoniava in nome della legge, in cuor suo sempre pensando ai giudici siciliani;  anche se proprio la diffidenza per il potere lo aveva portato in un primo momento a solidarizzare con Sciascia nella celebre polemica sui professionisti dell’antimafia. Amava i giudici giusti e amava le persone del popolo. Un giorno se ne uscì con un interrogativo folgorante: “Ma ci hai mai pensato ai figli dei ferrovieri? Che Quasimodo, Vittorini e pure Dolci sono figli di ferrovieri? E guarda, d’istinto ci metto anche Pinelli, che veniva pure lui dalla Sicilia”.
Venerdì mattina l’ho salutato. Introdotto a lui dalla dolce compagna della sua vita, Caterina. Non riusciva a parlare. Ma è riuscito a terminare la fatica di tirar fuori la mano dal lenzuolo per stringere la mia. Osservando fino alla fine il codice dei galantuomini che sanno l’onore e la cortesia.

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