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Un monaco tra lupi e sciacalli
Riporto per i blogghisti il ricordo di Scalfaro scritto da Marco Damilano sull’Espresso
Il pomeriggio del 24 maggio 1992 era una domenica di primavera, la sera prima la mafia aveva fatto saltare in aria l’autostrada Palermo-Trapani all’altezza di Capaci pur di eliminare il suo principale nemico, Giovanni Falcone. Una strage che aveva colto il Palazzo romano nel momento di maggiore paralisi, dopo oltre dieci giorni di votazioni a vuoto per eleggere il nuovo Capo dello Stato. Quella domenica c’erano centinaia di persone riunite spontaneamente davanti a Montecitorio, sgomente, indignate. E nella piazza risuonò una voce ferma, quella del presidente della Camera che all’interno stava commemorando Falcone e la sua scorta. «E’ solo mafia?», si chiese l’alta carica interpretando il dubbio di tutti. Era Oscar Luigi Scalfaro, il giorno dopo fu eletto presidente della Repubblica.
Sembrava un monaco. Ieratico, con la sua sciarpa bianca sempre al collo, verboso nelle sue omelie, capace di ire improvvise e di grandi dolcezze. Un monaco della Costituzione, chiamato a difenderne le radici originali, la purezza dello spirito mai sporcato dai tanti tradimenti della politica. E come tale detestato da chi la Costituzione la considerava carta straccia e voleva distruggerla. Trattato come un vecchio arnese da rottamare dai campioni del Nuovo che Avanza.
Invece, come un papa Giovanni repubblicano, era più nuovo e più giovane lui, a ottant’anni, di tanti abatini sbiaditi. Commentatori anti-conformisti per definizione, pronti a entusiasmarsi per una battuta di Francesco Cossiga (in un certo senso il suo contrario: un uomo di potere travestito da Picconatore) e a storcere il naso per lui. Lupi e sciacalli che assediavano la Repubblica. E che trovarono in lui un ostacolo invalicabile.
Ha rappresentato le istituzioni nei sette anni più difficili. Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. La fine del sistema dei partiti, compresa la Dc in cui aveva militato fin dalla giovinezza, e l’avvento del berlusconismo. L’attacco virulento alla Costituzione che da giovanissimo deputato alla Costituente aveva contribuito a scrivere. Le stragi di mafia (non solo di mafia) del 1992-93. I venti di secessione. E il ritorno del clericalismo in politica che lui, il devotissimo Scalfaro che non si è mai separato dal distintivo dell’Azione cattolica appuntato sul bavero della giacca, considerava una catastrofe.
Per decenni, nella Prima Repubblica, Scalfaro era stato visto come un esponente della destra democristiana, anti-comunista senza riserve, nostalgico di De Gasperi e perfino di Scelba. Nella Seconda, invece, divenne la bestia nera di Berlusconi. Il presidente che disse di no alla nomina di Previti a ministro della Giustizia e no alle elezioni anticipate nel 1994 dopo la dissoluzione del primo governo del Cavaliere. Come aveva detto no, del resto, a firmare nel 1993 il decreto Conso che avrebbe depenalizzato il reato di finanziamento illecito e che avrebbe salvato i partiti della Prima Repubblica, compresa la sua Dc.
Una diga insormontabile. A conferma del paradosso per cui la resistenza al berlusconismo non è arrivata da una certa sinistra, disposta semmai all’accomodamento e all’inciucio, ma dai conservatori, dai moderati, dagli antichi democristiani che nel signore di Arcore e nel suo seguito variopinto avevano subito saputo cogliere una malattia della società italiana non solo politica, ma culturale, etica. E’ questo paradosso che ha trasformato Scalfaro, ormai quasi novantenne e senza più nessun ruolo politico dopo l’uscita dal Quirinale nel 1999, in un’icona per le piazze movimentiste, da quella dei girotondi a quella della pace. Lo ricordo con l’immancabile sciarpone accanto a un altro grande vecchio, Pietro Ingrao, la sera dell’immensa manifestazione arcobaleno contro la guerra in Iraq. Alla fine, quasi, diede alla folla una carezza, come una benedizione. Il cristiano Scalfaro sapeva bene che anche un laico, non solo un prete, è chiamato a benedire: ovvero dire il bene.
Un combattente politico, che conosceva bene e sapeva praticare tutte le astuzie del potere, quel potere che aveva frequentato e impersonificato fin da ragazzo, senza mai lasciarsene impossessare. Non ci sto!, urlò in tv nel momento più duro della presidenza, quando sfiorò l’accusa di corruzione per i fondi neri del Sisde. Oggi, c’è da scommetterlo, lupi e sciacalli torneranno in azione per dileggiarlo (altro che l’unanimità del cordoglio registrato al momento della morte di Cossiga, su cui ha scritto nel suo libro "Lo statista" Nando dalla Chiesa presentato ieri a Roma). Non ci stava, no, lui non si è mai piegato. Per questo, e per tutto, grazie Presidente.
Nando
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