Il signor Giusto. E un melograno per amore

 

Il Fatto Quotidiano
29.1.2012

In certi giorni di primavera, in quel punto esatto di via
Monte Bianco, ne vengono fuori a quintali. Un’ immensa macchia rossa di
melograni in cima alla Viscontina, come si chiama la collinetta una volta
proprietà dei Visconti a Cardano al Campo. Siamo in provincia di Varese, zona
di piccola industria e agricoltura familiare. Scorre qui una delle storie più
poetiche che si possano ascoltare. Il protagonista è un signore robusto e
sorridente di settantotto anni. Baffi quasi bianchi, golf bianco e una maltese scodinzolante bianca
pure lei. Giusto Ferazzi è il suo nome. Origini e nostalgie contadine alle
quali ha dedicato anche versi che regala volentieri al visitatore. Iniziò a
lavorare nei campi a sette anni, “la licenza elementare l’ho presa grazie a
qualche cappone e salame che mia madre regalava alla maestra. Sa, i miei
avevano bisogno di me, allora non usava andare a scuola.” Eppure è proprio ai
tempi della scuola che bisogna tornare se si vuol capire qualcosa di quei
melograni che arrivano a ondate dal giardino di una villa sulla pubblica via.
“Ci portarono in corriera a Mornago, qua vicino, per un raduno fascista. Io ero
un figlio della lupa. Restai solo sul muretto della Casa del balilla , non
avevo niente da mangiare per merenda. E fu allora che venne verso di me una
bambina della mia età, una nuvola di capelli neri ricci con un fiocco bianco di
lato che li teneva insieme. Anche lei era lì per il raduno, come “piccola
italiana”. Aveva un sorriso indimenticabile. Guardi qui la foto, io non ci
riesco a descriverla bene. Mi chiese il mio nome. ‘Giusto’risposi, e lei non mi
prese in giro come facevano tutti, ‘giusto e sbagliato!’ mi scherzavano. Mi
regalò per merenda un melograno dicendomi ‘Mi chiamo Gianna ma se vuoi chiamami
Giannina’. Una visione. Poi però la riincontrai a scuola. E poi di nuovo quando
provai senza successo a iniziare le scuole commerciali. Andai a lavorare a
undici anni, infatti, portavo il carbone con un asino. Ma poi negli anni ci
siamo rivisti lo stesso. Finché ci siamo sposati. Sa, venivamo anche da
famiglie simili. Contadini noi, contadini loro, di Treviglio, dove ancora
circolavano i racconti degli anziani sul signorotto locale che pretendeva lo
ius primae noctis, come si chiama. Tutti e due i padri mandati al confino dal
fascismo. Il mio perché una volta al bar, durante un discorso del Duce alla
radio, si era alzato in piedi ma si era rifiutato di togliersi il cappello.
Abbiamo lavorato tutta la vita. Io alla Dragoni, una ditta di tessuti, dove
entrai a 14 anni per fare le pulizie e da cui sono uscito a sessanta come
vicedirigente. Pensi che quando ho fatto il caporeparto la produzione è
raddoppiata, quello prima di me tirava le sberle ai ragazzi e li trattava a
parolacce. La Giannina invece ha iniziato alla Vittoria, una grande azienda di
maglieria intima di Gallarate, poi si è dedicata alla ditta di pizzi e ricami
che abbiamo messo su insieme già da fidanzati, lavorandoci la sera. C’è ancora,
ci lavoro io -mica ho smesso, sa?- con mia figlia Caterina. Pensi che questa
casa l’ho costruita tutta con le mie mani, io e la Giannina. Sono 170 metri
quadri a pianterreno e altrettanti al primo piano, più i terrazzi. E poi il
giardino qui intorno. Ulivi, nocciolo ritorto, camelie, anche le palme. E i
fichi e i castagni. E poi i melograni, certo. Ci ho messo pure il ruscello,
come quello che scorreva nella nostra corte contadina.” E’ romantico ed
energico, il signor Giusto. Ha fatto sport. Come tennista e soprattutto come
ciclista, pedalando sbancava alle gare aziendali. C’è una foto nella stanza dei
ricordi in cui punta il traguardo solitario con le braccia alzate e la Giannina
gli corre incontro sulla strada strapazzando il regolamento. “Ho avuto la
fortuna di sposare la donna più bella del mondo, o almeno così mi sembrava”.
 

Poesie e memorie, foto in album e foto sulle pareti. “Guardi qui la Giannina con il foulard in testa sul lungomare, guardi quest’altra sulla vespa…Se ne è andata cinque anni fa, dopo una malattia di un anno. E dopo quarantaquattro di vita insieme. Ma aveva iniziato a morire molto prima…”. Il signor Giusto ha in gola una storia terribile da raccontare e che viene fuori d’improvviso. Suo figlio Umberto che cade nella voragine della droga e nel ’94 muore a trentadue anni, appena dopo la moglie ventottenne . La Giannina abbracciata fino alla fine a quel figlio maggiore, “cercato dalla prima sera di nozze”. “Lo disse allora che era finita, che nulla sarebbe stato più come prima. E così fu”.  
“Lei vuol sapere dei melograni, chissà chi gliel’ha raccontata questa storia. Però è davvero come le hanno detto. I rami delle piante arrivano sulla via, colmi di frutti, e io chiedo sempre al giardiniere di non potarli. Voglio che i melograni stiano lì e che tutti possano prenderne. Le donne, i bambini che passano. Vede questa lettera? ‘Oggi sono contento, ti scrivo per dirti che mi hanno rubato i melograni’.  Proprio così, quando un bambino ne prende io sono felice, perché mi sembra che sia la Giannina a darglielo, proprio come l’aveva dato a me. E’ il suo dono d’amore. Tutti devono poterli prendere, basta che non ne approfittino come quel tale che da subito non mi era piaciuto e un giorno si portò via tutto per sé.  Be’, sì che li ho piantati io. Ma non tutti, sa? Almeno quattro sono venuti su spontaneamente. E secondo me ne verranno fuori altri. Ci pensano gli uccelli a mangiare i frutti e a lasciar cadere i semi in giro. Anche loro mi aiutano a regalare i melograni. Ma non è bellissimo?”

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