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La scuola modello di Gavirate. Alla faccia della Cassazione
Questo articolo è stato pubblicato sul "Fatto Quotidiano" del 4 marzo. Avevo dimenticato di postarlo. Ma a rileggerlo dà un vago senso di rivincita sulla nota sentenza della Cassazione
Hai voglia a dire che basta con le scuole, che di insegnanti
ne hai già raccontati a sufficienza. Ne lasci uno, ne lasci due, poi decidi che
non è giusto. Che in fondo la gente deve sapere. Che a Gavirate, provincia di
Varese, sulle sponde del lago, funziona una delle più straordinarie esperienze
di formazione civile in corso nelle
scuole medie del Paese. Otto istituti di otto comuni diversi. In rigoroso
ordine alfabetico: Besozzo, Brebbia, Cocquio, Comerio, Casciago, Cittiglio e
Gemonio, già, il paese del Senatur: tutti messi in rete con Gavirate, scuola
media intitolata a Giosué Carducci, che -così si narra- da queste parti si
concesse qualche indebita licenza d’amore. Crocevia di questo impegno è una
professoressa con i capelli a caschetto, alle spalle una famiglia operaia con
il culto del lavoro. Si chiama Angela Lischetti. Tre lauree, “ma non ci faccia
caso, sono tutte uguali”: lettere, storia e filosofia. “Insegno lettere in una
seconda; e in più cittadinanza e Costituzione in tre seconde, un’ora a
settimana. Che facciamo? Il primo anno abbiamo lavorato sui diritti, il secondo
sui doveri, compresi quelli dello Stato, e il terzo sulla libertà religiosa.
Abbiamo riunito sul palco esponenti delle religioni cattolica, ebraica e
islamica, e già il solo vederli abbracciarsi è stata una lezione. Poi l’anno
scorso abbiamo invitato Maria Falcone e lei ci ha suggerito: perché non vi
occupate della mafia? E così quest’anno l’abbiamo fatto. Incontri con
magistrati, preti di trincea, familiari. Insomma con testimoni. Sa, io credo
che avesse ragione Montini: questi sono tempi in cui non servono maestri ma
testimoni. Il nostro è un impegno collettivo: dal preside Carretta, che è uno
che ci crede, alla più giovane, Claudia,
la mia collega napoletana, che prepara benissimo gli alunni nelle attività
teatrali”. Un lavoro serio, scrupoloso. L’altro giorno chi ha partecipato all’ultimo
incontro in auditorium, nel silenzio religioso di più di quattrocento ragazzini
giunti dagli otto comuni, si è trovato davanti a uno spettacolo meraviglioso.
Striscioni preparati dagli alunni con su i nomi delle vittime dei clan, uno
striscione per ogni categoria (magistrati, politici, giornalisti, forze
dell’ordine, ragazzini innocenti…). E soprattutto un filmato su Paolo
Borsellino realizzato da due ragazzini in modo semplicemente fantastico: a
colpi di youtube è venuto fuori il magistrato che racconta di sé dopo la strage
di Capaci, le sue frasi che si fanno anima e storia. Emozioni, memoria. Certo,
la celebre abilità tecnica dei ragazzi; ma soprattutto una sensibilità civile
sconosciuta a tanti adulti.
Frutto di un clima scolastico con pochi eguali. Anche se, o forse proprio
perché, Angela Lischetti non è “solo”
una benemerita prof di educazione alla
legalità. Basta parlarci per capire che c’è altro. Gratti pochissimo e sotto la
legalità e l’antimafia scopri l’educatrice che ha fatto del futuro dei ragazzi
la sua religione. Trovi la donna che li difende con il piglio combattivo richiesto
da una società fatta di soldi, consumi e affetti traballanti. Spiega
infervorandosi le conseguenze delle tante situazioni familiari difficili. Di
ragazzini in balia di capricci o insensibilità adulte. Delle coppie che si
sfaldano e dei ragazzi che arrivano a scuola smarriti, costretti in ruoli
impropri. Racconta delle telefonate perentorie a qualche genitore. Nell’epoca
in cui tanti padri e madri amano piombare a scuola per fare sfuriate agli
insegnanti, ecco questa professoressa mingherlina e armata di buon senso
operaio che mette in scena un copione opposto: e che appena capisce le
difficoltà o i tormenti di un allievo o di un’allieva chiama l’adulto e chiede
conto.
“Il principio di autorità. E’ questo che manca. Inteso come rispetto di doveri e ruoli. E occorre ricostruirlo. Come occorre dare il senso della partecipazione, del futuro. Vede, in questi incontri io voglio che ogni ragazzo capisca di non essere escluso dalla storia. Tu non sei lontano da dove pulsa la nazione, ma ci sei dentro. E il destino del paese lo decidi anche tu. Ma devono abituarsi alla fatica. Anche per questo chiedo spesso di imparare a memoria. La memoria educa, dà riferimenti. Imparare a memoria gli articoli della Costituzione, per esempio, l’articolo 3 sulla eguaglianza dei cittadini. L’altro giorno una mia allieva ne ha sentito parlare in televisione e lo ha detto subito ai genitori: questo è l’articolo 3. Non è bello? Imparare a memoria anche le poesie. Qui poi abbiamo avuto il massimo poeta dell’infanzia, Gianni Rodari. Era di Omegna, ma venne ad abitare qui. Era povero, e i suoi non potevano permettersi di sprecare l’energia elettrica. Così la sera, da bambino, si metteva il cappotto e andava a leggere sotto a un lampione. Questa è la sua storia. La vede quella casa com’è degradata? Era la sua. Ma non ne fanno un museo, né una biblioteca. Non lo si vuole onorare perché era comunista.” Mentre dice così, la prof riceve al cellulare la notizia che la seconda figlia si è laureata a Padova in scienze e tecnologie dei beni culturali. E’ felice, 110 e lode. E lei non c’è andata?“Mica potevo lasciare questo incontro; l’ho organizzato io, dovevo seguirlo fino in fondo, no?”. Rinunciare ad assistere ai trionfi accademici della figlia per garantire che la grande mattina a scuola, con l’intitolazione della biblioteca a Danilo Dolci, vada nel modo migliore. E’ questa la regola a Gavirate, patria di Gianni Rodari, il poeta comunista che non mangiava i bambini ma li faceva sognare.
Nando
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