Cassintegrati a Magenta. E ora ci candidiamo noi

 

Il Fatto Quotidiano, 6.5.2012

Suicidi in serie. O azioni da commandos temerari. Oppure la
vita traslocata su un tetto o su una torre. Per disperazione. Ma nell’Italia
presa a pugni dalla crisi c’è anche chi prova a lanciare altre forme di
protesta. E cerca di portare direttamente in politica la sua angoscia. Approfittando
delle elezioni. Succede oggi a Magenta, 23.500 abitanti nella provincia
occidentale di Milano, campo di battaglia risorgimentale dove si affrontano
cinque candidati sindaci e dove è spuntata una lista civica impensabile in
altri tempi. Si chiama “Dignità e lavoro”. Non “Magenta per noi” o “Insieme per
Magenta”, ma proprio “Dignità e lavoro”. L’hanno costituita i cassintegrati
della Novaceta, un’azienda di filo acetato, un tempo leader nel chimico-tessile,
seta artificiale, chiusa nel 2008 sull’altare di una grande operazione
immobiliare. Uno di quegli affari leggendari (un megaparcheggio, si sussurra) che
promettono sviluppo e modernità e intanto lasciano per strada grappoli di
operai. Ecco: qui dopo una vicenda intricata, la solita storia di piani di
salvataggio e di rilancio, di acquisti e smembramenti, di maghi zurlì che
vengono da lontano (nel caso l’imprenditore campano Lettieri), ne sono rimasti per
strada centosessantanove. Che hanno pensato di candidare al consiglio comunale
la propria condizione: “Settecentoventi euro al mese, con il mutuo da pagare,
che mi vergogno quando vado a ritirarli, una volta erano milletrecento e un po’
di decoro lo trovavi”. Certo, nessuno si attende sfracelli. E forse non è tanto
importante il risultato, alla fine Magenta non è l’ombelico del mondo. Ma
senz’altro ha un senso tutto suo, è  senza precedenti la scelta di fare della cassa
integrazione un simbolo elettorale, di portarla nelle istituzioni, in un comune
in cui il lavoro si fa sempre più precario, dove è finita in cassa integrazione
pure un’altra grande azienda, la celebre Saffa dei fiammiferi.
Perché in fondo questa vicenda è pur partita con qualche coinvolgimento delle
istituzioni. L’han deciso lì, o no?, che era cosa buona e giusta mettere gli
immobiliaristi al posto della fabbrica, accanto alla ferrovia che corre da
Milano a Novara, vicino alla stazione. E da quel momento, zac, tutto è
diventato più facile. Signori, lo stabilimento, classe 1954, allora area Snia
Viscosa, chiude. Quasi duecento operai a casa. Ultracinquantenni come Vincenzo,
Paolo, Luca, Concetta, Santo e tanti altri. Ma anche qualche trentenne. Loro ci
hanno provato a reagire. Usando i metodi di lotta più tipici della vecchia
classe operaia: occupare la fabbrica, andare a manifestare nel centro di Milano,
a piazza Affari o davanti a Unicredit, proprietaria delle aree. O usando i metodi
di quella nuova, figlia di un dio minore, con un potere contrattuale sempre più
debole: salire sui tetti, bloccare l’uscita dei macchinari. Il primo giorno di
lotta è stato il 14 dicembre del 2009. Nebbia, freddo, e un filo di paura
inconfessata. Da allora, che sia Pasqua Natale o Capodanno, che imperversino le
zanzare o fiocchi la neve, il presidio dei cassintegrati della Novaceta è sempre
lì. Uno striscione, “AAA. Cercasi imprenditori”, e un cucinino da campeggio che
assicura un buon caffè a tutti i visitatori. Spesso anche di notte, racconta
Ester Castano, free lance impegnata a fare conoscere  questa storia. Talora si improvvisano aperitivi
di solidarietà con i viaggiatori che scendono dal treno e passano a salutare. Ad
amministrare la cucina frugale e generosa è una donna gentile, la civiltà
contadina lombarda nel sangue, la solidarietà delle vecchie corti, si chiama
Concetta Covino. Ha lavorato nella mensa aziendale per vent’anni e dà ristoro
anche ora che sta all’aperto. Senti parlare gli operai e cogli una nostalgia
che commuove verso il proprio lavoro, le linee di produzione, gli armadietti
sfondati (“ma io ci ho lasciato la mia roba, non la tolgo”), la mensa dove
“quando sono arrivato nel ’79 era gremito di gente, si chiacchierava, ci si
confrontava”. C’è Paolo Chianura, che emigrò giovanissimo dal sud per andare a
fare il falegname in Germania e che arrivò qui alla fine degli anni settanta.
Alto, con la voce roca da fumatore. E’ una presenza quasi fissa al presidio,
dalle sette a mezzanotte, dicono che gli abbia procurato anche qualche problema
familiare. Si rammarica che non tutti abbiano capito il senso della resistenza.

 

A Magenta questi operai, eterogeneo frullato di opinioni politiche, hanno deciso di sostenere Sergio Prato, il candidato sindaco più anomalo, un quarantenne frizzante di cultura, presidente di un’associazione contro le discriminazioni etniche e di genere e omosessuale dichiarato. Più per ricordare la loro storia e la loro angoscia, più per ribattere quel chiodo che a cinquant’anni un altro lavoro non lo trovi, più per pubblicizzare il piano che hanno elaborato per il futuro dell’azienda, che non per mettersi a fare politica davvero.
Ricevono la solidarietà dei cittadini che non si voltano dall’altra parte, o quella degli operai della Saffa che anche l’altro giorno si sono uniti a loro. Ma la solidarietà più bella la ricevono dai ferrovieri, le mitiche avanguardie della loro classe. Succede a intervalli quasi regolari. Quando il treno che va verso Milano o verso Novara passa accanto alla fabbrica e sfiora il presidio. Quando il macchinista è di quelli che sanno la storia degli operai accampati ai bordi della ferrovia da più di tre anni. Allora il treno emette un fischio amico. Loro alzano le braccia e salutano. E d’istinto riprendono a sperare.
 

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