Aci Trezza. Pescatori per la legalità

 

Il Fatto Quotidiano, 13.5.2012

Hai voglia a dire che non bisogna esagerare. Ma una
cooperativa così poteva nascere solo qui,  ad Aci Trezza. Perché i pescatori hanno
un’anima misteriosa in tutte le letterature. Ma le barche hanno un’anima solo
in questo paese che sembra un presepe marittimo. Qui dove affondò la
Provvidenza di Bastianazzo, nelle pagine più intense dei Malavoglia. In questo villaggio di pescatori che nella sua
prefazione il Verga descrisse come “popolo sparuto di tuguri bruni sparpagliati
sulla spiaggia bruna, col suo mare che gli fa dinanzi una frangia di spume
fervide, e coi suoi scogli che vengono su dalle onde come isolotti
torreggianti, bruni anch’essi, i faraglioni”.
Oggi quell’atmosfera magica e in dissolvenza ha trovato chi vuole farla
rivivere. Una cooperativa chiamata “Gente di mare” guidata da una donna colta e
gentile, Stefania Massimino. Fondata nel 1991, ne fanno parte pescatori anziani
e giovani, ventitre piccole imbarcazioni in totale; di Catania, di San Giovanni
li Cuti, di Ognina e di Aci Trezza. E poi un cuoco, dei camerieri e lei,
naturalmente, che nel 2007 ha avuto l’idea di aggiungere alle avventure in mare
aperto una trattoria appena sopra il porto e che oggi, cinque anni dopo, già sta
immaginando nuove imprese.
“Come lo chiamiamo questo progetto? Chiamiamolo pure ittiturismo. Non ce ne
sono molte di esperienze, in Sicilia si stanno muovendo i primi passi. C’è un
mondo che sta finendo e noi vogliamo salvarne la memoria. In futuro ci sarà
l’acquacoltura, il biologo prenderà il posto del pescatore. Ma già adesso sta
finendo qualcosa. C’ è stato al porto? Ha visto le barche sulla rena? Sono
sempre di più in vetroresina. Quelle di legno erano un’altra cosa. I colori dipingevano
l’anima delle barche. E anche gli oggetti che ci vedeva decorati sopra,
l’occhio, la cesta coi fiori, erano il segno di un’identità da custodire. La
barca era uno di famiglia, dipingerla era un atto d’amore. Perciò stiamo
immortalando quei colori sulle ceramiche che mettiamo in trattoria. Ma non
basta. Io penso che dovremmo iniziare una produzione in grande stile di queste
ceramiche, che vadano in giro per il mondo a parlare di noi e della nostra
storia. Del nostro mito. Acitrezza tra Malavoglia e Omero, Polifemo che tira i
due massi immensi contro Ulisse e ce li lascia lì in mare, i nostri faraglioni.

Da lì si parte. Noi non siamo degli esperti di ristorazione; solo Ahmed, il
cuoco, è un professionista. Io ho dovuto imparare tutto, specialmente andando sulle
barche la sera, per conoscere i nostri pescatori e il vocabolario delle cose di
mare. I più anziani hanno un rapporto particolare con le loro barche. Mi creda,
li ho visti piangere quando, sopraffatti dagli anni e non trovando eredi, hanno
deciso di incassare il premio della comunità europea per chi distrugge la barca
e rinuncia alla licenza di pesca. Li ho visti soffrire al primo colpo della
demolizione. Si impara sempre stando in questa cooperativa. Anche l’imprevedibile.
Vuole che glielo dica? Ho imparato perfino che i ragazzi di qui non sanno
nemmeno che cosa sia il marsala. Conoscono il rosolio ma non il vino siciliano
per eccellenza. E’ assurdo, no? Per questo noi in apertura di cena serviamo
come benvenuto un bicchierino di marsala con del formaggio pepato. Perché
l’avrà capito, noi cerchiamo di mettere la nostra filosofia ovunque”.
La signora Stefania si muove come affabile regista tra i tavoli della
trattoria.  

L’espressione intensa si addolcisce man mano che coglie l’interesse dell’interlocutore per un’impresa che non deve essere facile affatto. “Già, un conto sono le idee un conto è realizzarle, soprattutto quando hai mille lacci burocratici, magari una causa penale per un condizionatore che è stato messo copiando pari pari quel che avevano fatto gli altri. Ma ce la stiamo facendo, anche se il mio sogno è quello di tenere aperto pure a mezzogiorno, non solo la sera. Non per profitto, gliel’assicuro, ma per dare lavoro, il cielo sa se ce n’è bisogno da queste parti. E per svolgere meglio il nostro ruolo. Educare al sano, al buono, al bello. Nel nostro piccolo, naturalmente. Fare capire, per esempio, che il pesce povero è meglio. La gente arriva e vuole sempre il pesce spada, ma noi dobbiamo dirle che è imbottito di mercurio e di metalli pesanti e che il maggiore potere nutrizionale ce l’ha il pesce azzurro. Infatti i nostri piatti da urlo, se me lo consente, sono le alici fritte, la pasta con le sarde e gli spaghetti col nero di seppia, che ci mettiamo su un cucchiaino di ricotta. Non ne diamo di pesce pescato contro le leggi. Il novellame, ad esempio: ci si fanno delle polpette ottime, ma è proibito tirarlo su. Ecco, il consumatore non dovrebbe chiederne, così nessuno lo pesca più. Noi siamo per una pesca sostenibile. La legalità è importante nel nostro progetto. Per questo come vino diamo solo il Centopassi della cooperativa Placido Rizzotto. Vede, chi entra qui non deve avere l’idea che si spaparanza su una sedia e attacca a mangiare. Deve sentire di entrare in un clima: i pescatori e le loro barche, il mare della notte, il pesce povero, la Sicilia, la storia magica di Acitrezza, la legalità, la bellezza del lavoro”. Con il cielo ormai stellato, in questo luogo alle spalle della chiesa madre del paese, la signora Stefania parlerebbe a lungo. E le parole in lei sembrano barche che partono e cercano una Sicilia diversa, l’isola che non c’è. Ittiturismo. Una volta si chiamavano sogni.

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