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Bulgarograsso. Fabio l’assessore e la sua gente
Il Fatto Quotidiano, 17. 6. 2012
Bulgarograsso?
Eddai… Un paese che si chiama così? E dove sarebbe? E come si
chiamerebbero i suoi abitanti? Calma. Intanto Bulgarograsso esiste davvero,
“c’è”. In provincia di Como, sopra Appiano Gentile. Poi i suoi abitanti si
chiamano bulgaresi; il grasso (che indica la fertilità del terreno) se lo sono
tolto dal nome. E in mezzo a loro spicca un giovanotto asciutto e nervoso che
viene da tutti chiamato “l’assessore”. Non perché abbia una storia politica da
ras locale, ma perché, essendo l’unico assessore, l’articolo determinativo gli
spetta di diritto. In questo paese ordinato e dove si allineano in discesa deliziose
case manzoniane, in questo paese di quattromila anime, la giunta la fanno in
tre: sindaco, vicesindaco e assessore. Fabio Chindamo, i capelli leggermente
ritti all’insù, occhiali intonati ai modi essenziali e gentili, si presenta
all’interlocutore come assessore “alla cultura”. Anche se si occupa pure di
ambiente e di bilancio. Mica sverze. Ma la cultura è la sua passione.
Siete convinti che la politica sia a pezzi ovunque, si sfarini sotto ogni
campanile, per colpa di leggi elettorali, condannati pullulanti in parlamento,
afasie di leader immaginari? Errore. La politica in Italia è fatta anche di
questi eserciti di assessori generosi, con tessere diverse o senza alcuna
tessera, che pensano soprattutto alla propria gente e coltivano i propri sogni
di cambiamento. Arriveranno le docce fredde, le fetenzie dei marpioni, ma
intanto loro danno alla politica e all’amministrazione anima e corpo. Magari rinunciando,
come accade qui a Bulgarograsso, a ogni indennità e tenendosi solo il gettone
di presenza. Fabio è assessore da due anni. E rappresenta una lista civica, di
centro si direbbe. Si è appena laureato a Milano nel corso ideale per svolgere
bene il suo ruolo: amministrazioni e politiche pubbliche. Sogna uno stage in
qualche azienda che si occupi dei problemi dei comuni. Intanto chiama gli amici
universitari a dargli man forte nel suo
paese, ormai punto di raccolta di giovani entusiasti e vitali, una iniezione di
dinamismo culturale per tutta la zona.
Si muove con orgoglio misurato per le strade del paese per mostrarne i piccoli vanti al visitatore. Qui la piazza
con porticato e una bella scalinata ad anfiteatro per i dibattiti all’aperto,
“tanto abbiamo i nostri volontari della protezione civile che ci dicono se
piove e ci azzeccano sempre”. Qui il campanile del Settecento, “la chiesa
invece è di quelle tipiche degli anni cinquanta” (e si vede). Qui lo slargo
elegante, “questo lo abbiamo fatto noi”, fino alle case manzoniane grigie e
sobrie, cresciute intorno alle più classiche corti lombarde di cascina.
Voi penserete a questo punto che stiamo parlando di un paese lindo e
tranquillo, dove l’assessore deve solo inventarsi qualcosa con pochi soldi,
stringere molte mani e invitare un po’ di ospiti famosi per portare vento nuovo tra i discorsi
televisivi. Ancora errore. Perché noi potremo anche non sapere che esiste
Bulgarograsso. Ma la ‘ndrangheta lo sa benissimo. La ‘ndrangheta questi paesini
li conosce perfettamente, li studia come il gatto fa con il topo. L’opinione
pubblica pensa che vada a Milano “perché lì ci sono i soldi”. E invece lei va
prima di tutto nei paesi più piccoli, dove non ci sono i carabinieri. Nei
paesini sconosciuti disseminati nella Lombardia. Qualche mese fa qui è
scoppiata una bomba. E’ saltato un furgoncino di un’azienda dei subappalti. E
nella vicina Fino Mornasco il sindaco ha ricevuto minacce vere: una croce con
la sua foto fuori dal cimitero. Mentre altri episodi di intimidazione sono
toccati al sindaco di Lomazzo. In paese è stato in soggiorno obbligato il boss
Calogero Marcenò. E in vent’anni questa zona è stata rimpinzata di “locali”
‘ndranghetiste, cresciute come satelliti affamati di droga e ruspe intorno al clan Mazzaferro, l’unico -narrano
gli atti giudiziari- autorizzato “da giù” a non dovere andare ai grandi summit alla
Madonna di Polsi dei primi di settembre. Fabio l’assessore lo sa benissimo.
Figlio di un calabrese e di una comasca, organizza in piazza anche dibattiti
sulla mafia. Per questo, davanti alla sua gente affollata sulla scalinata ad
anfiteatro, sente il dovere di ricordare nel cuore della sera la bomba di gennaio.
Il dovere di richiamare il linguaggio dei nuovi “bravi”, dei don rodrigo venuti
da fuori che vanno alla conquista dei cantieri o all’assalto di negozi indocili,
e che per i giornali metropolitani non sono mai “notizia”. Basta un riferimento
secco, grave, e la gente applaude, non rimuove affatto. Applaude i ragazzi che
invitano a partecipare ai campi di lavoro sui terreni confiscati e più volte
incendiati. E si riconosce in una politica per nulla sfarinata ma che ha la
spina dorsale di un giovane non ancora venticinquenne,
affiancato dalle associazioni e dalle casacche gialle della protezione civile.
Gli si fanno intorno. Compare la moglie timida e gentile, Alessandra,
infermiera, sposata da nemmeno due mesi. Poi l’assessore guida i giovani amici
per via Battisti, assicurando che mamma Rita fa una pizza eccezionale. L’Italia
civile dovrebbe sapere misurare quanto accade in questi paesi, nelle migliaia
di Bulgarograsso sparse per le sue contrade. Perché per Trenitalia la nazione
sarà pure fatta di romani e milanesi. Ma la vita della Repubblica scorre
soprattutto qui. I suoi destini si giocano soprattutto qui. Dove a presidiare
la legalità c’è, senza caserme e tribunali, Fabio l’assessore con la sua gente.
Nando
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