Un tuffo nell’arena. Leopardi firma per Caselli. E i pensieri pruriginosi

 

E’ da due sere che mi sono rituffato nel clima della vecchia
arena. Avete presente quella splendida usanza di guardare un film in un cinema
all’aperto? Ecco, a Stromboli la libreria offre questo servizio in un piccolo
giardino (da 60-70 persone stipate) dove fa anche le presentazioni dei libri.
Tu guardi lo schermo e dietro vedi il vulcano che ogni tanto rosseggia (oggi è
stato attivissimo). Sopra, invece, tutta la stellata fantastica di quando la
luna è altrove. Insomma un cinema Paradiso un po’ d’élite. Stasera ho visto “Cesare
deve morire” dei fratelli Taviani, recitato da detenuti. Mi piacque assai, vera
arte. Ieri invece ho visto “Pasta nera”, magnifico documentario premiato l’anno
scorso a Venezia. Racconta dei bambini delle zone più disastrate del sud ospitati
per anni in Emilia dal 1945 al 1952. Immagini incredibili: belle e commoventi.
I bimbi di allora raccontavano la scoperta del mondo dove si mangiava tre volte
al giorno, e di come fossero stati terrorizzati prima di partire da parroci e
soci vari perché l’Emilia pullulava di comunisti “che mangiano le dita dei
piedi dei bambini”. Dunque era vero (che lo dicevano, intendo..)! Pensavo fosse
caricatura, ma lo dicevano sul serio. Mi chiedo solo perché il Paese non abbia
memoria di queste solidarietà, delle belle cose che ha pur fatto. In ogni caso
due film mi alzano la media annuale e ciò mi conforta.
Non mi conforta invece che Gian Carlo Caselli sia costretto per l’ennesima
volta a ricordare quel che fece la procura di Palermo da lui diretta in termini
di arresti di latitanti e di sentenze ottenute. Trovo indecente che quest’uomo
debba ogni volta ricordare che Andreotti non fu assolto, che la sua non è stata
giustizia “politica”, ecc. Santo subito Giacomino da Recanati con le sue Operette
Morali e il dialogo con l’amico Tristano: gli uomini credono quel che cavolo
gli piace credere (l’ha detto un po’ meglio, lo so, ma il senso è questo). Mi
conforta viceversa immaginare che forse ce la faccio davvero a consegnare in
tempo utile per l’anno accademico il mio libro sulla comunicazione di impresa.
Giuro: più lo scrivo e più ci provo gusto a polemizzare con una letteratura che
non si pone mai il problema del per chi
si comunica, che si compiace come un terribile narciso dei termini inglesi che
usa, e che sembra vivere nell’iperuranio. Per esempio: qualche testo nei
prossimi anni scriverà mai della comunicazione di impresa dell’Ilva di Taranto,
ovvero di quel direttore delle relazioni istituzionali che viene beccato al
telefono mentre dice che il modo migliore di comunicare è di pagare i
giornalisti? (io l’ho scritto, beninteso..)
Vedo infine su un sito “Caribe” che, a proposito del mio articolo su Cuba, ci
si chiede come mai una ragazza cubana si trovi a cena con “personaggi come
Nando dalla Chiesa”. E si ammicca: “non per essere pruriginosi…”. Tranquilli,
ancora non recluto ragazze. Una era la moglie di mio nipote, ovvero nuora di Simona
e giovane mamma di Julio Carlos, già qui celebrato. L’altra era una sua amica
venuta da Londra. Che ovviamente è quella che ho fatto parlare. E’ così che ci
si può trovare a cena insieme, se un fratello va in vacanza nel villaggio
gallico della sorella. Olé.
P.S. Sì, Robertoli. Ancora Forza Marco, ancora. Ne ha bisogno…E con affetto.

 

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