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“Mio padre il generale”, scritto su la Repubblica di Palermo di oggi
Chissà quanto è passato e chissà quanti sono trent’anni. A
volte si riesce a vedere la profondità del cammino compiuto con quel poco che
si aveva a disposizione. Denunciando e costruendo. Senza istruzioni per l’uso. Praticando
il principio del celebre verso di Machado: “Caminante/ no hay camino/ se hace
camino al andar”, la strada si fa camminando. Bisogna prendersi il diritto di
pronunciare la parola mafia. Bisogna gridare che la mafia non è una forma di
ribellione allo Stato ingiusto ma ne è l’alleato più violento. Bisogna
affermare mille volte che i giudici impegnati contro la mafia non sono degli
assatanati ma dei buoni servitori dello Stato. Bisogna chiedere agli uomini di
chiesa di stare con il Vangelo contro chi calpesta la dignità dell’uomo. Bisogna
che la scuola educhi già da ragazzini a rifiutare la cultura mafiosa. Bisogna
che i cittadini capiscano di doversi schierare con i carabinieri e i poliziotti
invece di chiamarli sbirri. Bisogna sapersi unire al di sopra delle differenze
politiche, anzi bisogna mettere da parte le bandiere di partito. Bisogna che
contro la mafia si mobiliti la cultura: che si scrivano libri, si facciano
film, perfino canzoni. Bisogna denunciare le collusioni politiche nome e
cognome senza guardare in faccia nessuno. Bisogna rompere l’omertà mafiosa,
dare ai mafiosi che vogliono parlare gli stessi benefici previsti per i
terroristi. Bisogna che quando vanno a processo i mafiosi vengano condannati
invece di essere sempre assolti per insufficienza di prove, altrimenti lo Stato
non sarà credibile. Bisogna che vengano colpiti nelle loro fortune economiche,
che gli si possano sequestrare i beni ottenuti con il sangue altrui. Bisogna
combatterli con uno Stato organizzato, capace di coordinare le indagini, mica
possono essere organizzati solamente loro. Bisogna che ci sia un movimento
antimafia stabile, che non dipenda dalle emozioni del momento, loro ci sono
sempre. Bisogna avere memoria degli eroi, perché tutto quel che è stato fatto
abbia un senso per chi verrà….
Bisogna, bisogna, bisogna. Quante volte abbiamo usato questo verbo nel nostro
cercare la strada. E spesso quel che
“bisognava” è stato faticosamente fatto. E’ lì, sotto gli occhi di tutti.
Quando lo si vede, quando lo si contempla volgendo lo sguardo all’indietro, si
capisce, allora sì, quanti sono trent’anni. Generale, perché non viene a
parlare nella nostra scuola? Questo generale con la sua idea di combattere la
mafia porterà il disordine, le rapine, le nostre mogli non potranno più uscire
con le pellicce. Mentre a Roma si decide sul da farsi Sagunto viene espugnata,
e questa volta Sagunto è Palermo, povera la nostra Palermo! Qui è morta la
speranza dei palermitani onesti. Trent’anni. Chissà chi si ricorda queste
frasi. Chissà chi sa metterle al punto di partenza di una rivolta civile che
sarebbe andata avanti coinvolgendo tutto il paese e avrebbe trovato nuovo
impulso con le stragi terribili di dieci anni dopo.
Ma altre volte i trent’anni sembrano niente, sembra che tutto sia accaduto
ieri. Non solo per le ferite personali, quelle risbucano fuori quando nemmeno
te ne accorgi, basta niente, basta sapere che deve intervenire un cittadino
anonimo per chiedere con un suo cartello di non mettere la spazzatura sotto la
lapide di via Carini, e ti sembra di nuovo quel venerdì sera, 3 settembre 1982.
Ma anche perché non possono essere davvero passati trent’anni se alcuni
insegnamenti del generale venuto dal nord a fare il prefetto di Palermo vengono
ancora così irrisi e disprezzati nei fatti. Dobbiamo dare ai cittadini sotto
forma di diritti ciò che la mafia dà loro sotto forma di favori. Finché una
tessera di partito conterà più dello Stato non riusciremo mai a sconfiggere la
mafia. E il non frequentare i potenti amici dei clan, e il prestigio necessario
in terra di mafia a chi vi rappresenta lo Stato. Prestigio ottenuto con la
rettitudine dei propri comportamenti. Ma anche prestigio riconosciuto da uno
Stato che non può abbandonare i suoi rappresentanti in trincea. Principi ovvi,
cristallini. Ma davvero trent’anni non sono bastati a capirli, a farli
rigorosamente propri? Di quanto tempo hanno mai bisogno uno Stato, un popolo,
una società, per assimilare principi tanto elementari?
Questo sconforta, amareggia, anche chi -come me- è convinto che la mafia da allora a oggi sia stata resa più debole, che abbia preso, a prezzo di enormi sacrifici tra gli onesti, legnate un giorno inimmaginabili. Perché in tanti hanno fatto il loro dovere, e spesso di più. Tanti magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine, insegnanti, studenti, preti, sindacalisti, intellettuali, cittadini senza potere, donne di associazioni, familiari di vittime, professionisti, imprenditori, giornalisti. Ma se quei principi non sono ancora obbligo morale per la politica e per le istituzioni, che pure in trent’anni hanno conosciuto la caduta del Muro e l’elezione diretta dei sindaci, la fine dei vecchi partiti e l’euro, vuol dire che c’è un postulato immobile nella testa di chi fa politica generazione dopo generazione. Ed è che della mafia, in fondo, non bisogna fare una priorità seria, da sangue che ti ribolle nelle vene. E che magari, più che un problema, la mafia è una risorsa.
Ottimismo, memoria imbalsamata. Ma quella memoria è viva e parla a tutti e tutti interroga, perché il delitto fu politico, spudoratamente politico, anche se pur di non ammetterlo si volle andare a cercarne le origini nelle carte segrete di Moro anziché in quello che davanti a tutti era successo per quattro mesi. Chissà quanti sono trent’anni. Se consentono di ricordare la solitudine di un uomo. Di ricordare perché venne ucciso. Di ricordare nei comportamenti i suoi insegnamenti e i suoi principi.
Nando
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