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Dai maiali alle cozze: il volto cafone del palazzo (sul “Fatto Quotidiano” di oggi)
Ma voi lo sapevate che a Pereto d’Abruzzo esiste un
Monastero di Santa Maria dei Bisognosi? E che è lì pietosamente ricoverato un
signore, Luigi Lusi, capace di spendere centottanta euro per un piatto di
spaghetti al caviale e ottantamila euro per una settimana con moglie e amici alle
Bahamas, proprietario di case e ville da nababbi? Anche in questi perfidi rovesciamenti
di ruoli e di significati si specchia il declino da basso impero che travolge la
politica italiana. Affondata proprio perché ognuno ha preteso di rovesciarsi
nel suo contrario. Il persecutore in perseguitato, l’illetterato in statista,
il servo Cia in maestro di libertà, il furbo di suburra in leader politico, la
velina turpiloquiante in istituzione. Restano gli oggetti, muti, che parlano
però più degli uomini. Raccontano i tempi, si distaccano dal loro uso
quotidiano per diventare simboli d’epoca. Come il water in cui vennero
scaricati i denari del mariuolo Mario Chiesa per sottrarli ai carabinieri
entrati nel suo ufficio di concussore. Come il puff in cui era stipato il
tesoro di Poggiolini. Anche nel ’92-’93 i tempi del disfacimento si fissarono
in alcuni oggetti. Solo che allora si disfaceva un sistema dei partiti che
aveva avuto, in fondo, una sua nobiltà. E che perciò produsse anche la tragedia
dei suicidi, più di tutti quello di Sergio Moroni, deputato socialista
bresciano.
Oggi il disfacimento è di ciò che è già stato barzelletta, commedia pecoreccia,
oggetto di ludibrio internazionale. Anche nella fisiognomica che gli fa tuttora
da sfondo e da corona. Il tritacarte, per esempio, quello in cui vengono
ridotti a coriandoli conti e fatture della Regione Lazio, per occultarli alla
vista degli investigatori. Fiorito e il tritacarte. Macchina che moltiplica
sminuzzando, esattamente come i premiati consiglieri laziali moltiplicavano all’infinito
i denari triturandone sempre di più, fino a renderlo invisibile, il pubblico
valore. Tritacarte loro per vocazione. Distruttori di carte attraverso carte
(di credito). Che alla fine chiamano a salvarli l’oggetto che più assomiglia
loro, sorta di gemello inanimato.
E la maschera da maiale, splendido incrocio tra Plauto e Baudrillard che
sventola beffardo su Roma. Frotte di coatti travestiti da politici che, non
sazi di essersi già una volta travestiti, godono a travestirsi una volta
ancora: da proci in calore, da romani sul triclinio, da povero Ulisse derelitto
come nemmeno nella peggiore avventura omerica. Così allucinati da non
accorgersi che l’ennesimo travestimento, come in un gioco circolare, li
restituiva invece alla loro ignuda natura: coatti, appunto, portati dai venti impazziti
della storia a comandare i popoli, a guidare la “politica”.
La maschera in faccia, dunque, e il costume ardito dietro, a mostrare i glutei
plastici, come nel caso di Nicole Minetti, la meno colpevole di questo
carnevale né boccaccesco né ruzantino ma semplicemente e solo burino. La
consigliera regionale non più fotografata casualmente mentre tende i pettorali
in aula, ma scesa direttamente in campo a miracol mostrare, tra masse di
fotografi vocianti. E’ la parità, bellezza, è la quota rosa in politica, con
tanto di laurea breve in igiene dentale, lei almeno l’ha presa in Italia senza
iscriversi a Tirana. Faceva scandalo Cicciolina, che però almeno non si
travestiva. Né da suora né da indossatrice. E non briffava nessuno. Le
istituzioni in costume, deve essere una fissazione.
In costume è stato immortalato anche Formigoni. Un bel costumino ridicolo color porpora fenicia, con marsupio a tracolla e mani sui fianchi. Ma anche qui, come nella sfilata della Minetti, non è mai di moda che si parla. Il costumino si staglia sulle acque incontaminate dei Caraibi. Sui paradisi, naturali e fiscali, dove il governatore andava ospite dell’inseparabile Pierangelo Daccò, testé condannato a dieci anni in primo grado per associazione per delinquere, concorso in bancarotta fraudolenta e altro ancora. Carte di credito, sempre carte di credito, fortissimamente carte di credito. Gli assegni e le buste ricolme di euro di mister B e tutti gli altri con le carte di credito, dal Piemonte alla Sicilia. Così convinti della propria impunità, tanto ai giudici ci pensa Lui, da lasciar tracce di reato dappertutto. A furia di sostenerlo, alla fine s’erano convinti davvero che in Italia le indagini si facessero solo con le intercettazioni telefoniche. Per questo le schede telefoniche tenute a decine in tasca, da cambiare come in un gioco infinito di prestigio di guardie e ladri. Anche loro oggetto simbolo. Come le carte di credito, come i marsupi lombardi, come i costumi da attizzo e quelli da smoscio, il tritacarte e la maschera da maiale. Lo storico carteggio tra B. e un pescivendolo diventato ministro ombra, e l’elicottero per la sagra del peperoncino e la motovedetta per Ponza. E lo stock di bigliettoni in casa di Penati. Sullo sfondo, irresistibili nella loro comica innocenza, le cozze pelose in una vasca da bagno. Non c’è molto da ridere, ma vien da ridere lo stesso.
Nando
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