La cantante che dava i brividi e che vide il ritorno di Lea

 

Il Fatto Quotidiano, 9.12.12

Sale in progressione, la voce. Parte dal palco, sembra che
abbia l’anima nel pianoforte. Invade la sala “Puccini” del Conservatorio di
Milano. E avvolge i duecento presenti, rapiti dalla magia che si consuma mentre
fuori il gelo della sera ha ormai spazzato ogni figura umana dai ciottoli del
sagrato, dalla Milano romantica di Luigi Santucci, lo scrittore che abitava lì
di fronte. Ha qualcosa di incredibile la voce della donna minuta, condotta al
piano dalla mano affettuosa di un professore. Il passo incerto, il movimento un
po’ impacciato e guardingo, l’artista è comparsa al pubblico dopo che il
presidente del Conservatorio, Arnoldo Mosca Mondadori, l’ha presentata come uno
dei frutti prodigiosi dell’istituto musicale.
A sentirne il nome la platea ignara non si esalta. Sarà una brava cantante come
un’altra. E invece la voce impugna i sentimenti, dà loro di colpo una forza
imprevista. Li fa volare. Dà nostalgia di chi non c’è più, inquietudine per ciò
che accade, voglia di non fermarsi più dinanzi a codici e pandette.
D’improvviso la storia allarga il suo spazio. Ora ci sono due donne
protagoniste sulla scena. Due coetanee che non si conoscono. Una è lei, Silvia
Zaru, bruna di capelli, non alta, vestita rigorosamente di nero, “pianista,
cantante, compositrice”, come recita il suo biglietto da visita. L’altra è una
donna che lì tutti nominano e conoscono per una foto sorridente, ma che non può
venire, non potrà mai venire, perché l’hanno uccisa tre anni fa. Si chiama Lea,
Lea Garofalo. La sua è una storia nota, già raccontata su queste pagine.
Scappata insieme con la figlia Denise dalla famiglia di narcotrafficanti
calabresi, dalla rete di violenza che la imprigionava da Milano a Petilia
Policastro; decisa a raccontare alla polizia, non come collaboratrice ma come
testimone innocente, quel che aveva visto. E perciò dopo un calvario
indescrivibile attirata in tranello a Milano e uccisa. E sciolta nell’acido.
Così almeno si è pensato a lungo, non essendosi più trovato il suo corpo. E
invece da pochi giorni pare che non sia così. Proprio poco prima del terzo
anniversario della sua scomparsa si sono trovati dei resti umani in un campo
della Brianza. Potrebbero essere i suoi.
Con questa novità precaria, che apparentemente non cambia molto della storia,
si congiunge la voce di Silvia. Chiamata a cantare in un concerto immaginato
apposta per dare giusta e pubblica memoria (e “un corpo”) alla giovane vittima.
Solo il cielo sa se le musiche che Maria ha scelto si sono incontrate già nella
sua immaginazione con il clima emotivo della serata. Fatto sta che quando canta
Violeta Parra l’incontro avviene. Ci sono le ragazze e i ragazzi che hanno
accompagnato Denise, la figlia di Lea, nella sua terribile prova processuale:
trovare il coraggio di accusare il padre. C’è Enza Rando, l’avvocato che ha
difeso le sue ragioni di adolescente clandestina. C’è uno spicchio della Milano
che in questa storia ha gettato la sua anima più generosa e assetata di
giustizia. Silvia, chissà come, ha l’ispirazione di dire che la sua voce vuole
riportare “tra noi” Lea, restituirle la possibilità di essere presente. Un
brivido corre per la sala, nessuno capisce più bene chi abbia preso la regia
delle parole e delle emozioni. Fatto sta che di colpo, come in una liberazione collettiva,
uno dopo l’altro in molti dicono ad alta voce quel che il processo ha ritenuto
di non dire. Che Lea è stata uccisa dalla ‘ndrangheta, sì, è stato un omicidio
di ‘ndrangheta, non una questione familiare. Sembra quasi di rivedere Ignazio
Buttitta, il grande poeta dialettale siciliano, che manda per il mondo la sua bellissima ballata in onore di
Turiddu Carnevale, il sindacalista ucciso dalla mafia ma che la giustizia
avrebbe dichiarato ucciso da chissacché, perché “la mafia è questione per
sociologi e non per tribunali”. “Angelo era e non aveva ali”, cantava Buttitta
di Carnevale. Anche Lea si libra nel mondo, debole, contraddittoria, con le sue
fragilità ma con quella forza immensa di madre che vuol sottrarre la figlia a
un destino infame.

 

Qualche giorno fa hanno fatto la prova del dna su quei resti trovati in Brianza. Erano i suoi. Non le hanno sparato, dice che l’hanno strangolata e poi carbonizzata. Ma non abbastanza per impedire che ne restasse qualcosa. Dice che un giorno tornerà tra noi con un grande funerale di popolo e Denise, sotto protezione da anni, saprà dove andare a trovarla. L’altro ieri le ragazze e i ragazzi che si sono dati i turni al processo hanno ricevuto la benemerenza dell’Ambrogino d’oro dal comune di Milano. Sono saliti Giulio, Paola e Lucia. E l’hanno ringraziata dal palco del teatro Dal Verme. E anche il comune ha detto che fu delitto di ‘ndrangheta. Così è stato difficile non risentire la forza misteriosa della voce di Silvia Zaru, condotta a piccoli passi verso il pianoforte con la premura che si deve a chi ha il buio negli occhi. A chi non può vedere il presente. Ma che, come il Tiresia del mito greco, ha annunciato il futuro, con quel desiderio improvviso: “riportarla qui tra noi” con la sua voce.

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