Storia di Concy, fatina da battaglia

 

Il Fatto Quotidiano, 20.1.13

Ci dev’essere qualcosa di vero in questa storia delle acque
chete. Perché Concy sembra una madonnina infilzata, minuta e con quegli occhi
verdi che mandano lampi di poesia innocente. E invece più racconta la sua vita
e più ti accorgi che è un osso duro, una panzer travestita da fatina. Quarant’
anni e una storia che continua a cambiare, decisione dopo decisione. Come quella
volta che all’ospedale Sant’Orsola di Bologna le dissero senza mezzi termini di
prepararsi. Josephine stava morendo. Doveva organizzarle i funerali. Josephine
era una ragazza di quattordici anni arrivata dallo Zimbabwe grazie a una
convenzione tra la regione Emilia Romagna e la Caritas. Una malformazione
cardiaca gravissima. “Ma quale miracolo? Ce ne vorrebbero tre tutti insieme di
miracoli: cuore, fegato, tutto; e appena rimedi da una parte peggiora
dall’altra”, le disse un amico. “Lo vuole capire o no che questa ragazza è un
corpo attaccato a una macchina?”, l’aveva rimproverata una dottoressa. Lei
c’entrava perché la tutela della ragazzina l’aveva don Renzo, il direttore
della Caritas con cui collaborava. E siccome non c’era niente da fare, un
giorno alla terapia intensiva staccarono le macchine. Solo che Josephine invece
di morire diede segni di miglioramento e sembrò guarire. Lei e il marito Mirco
se la portarono a casa. “La curai, le presi un vestito azzurro, le insegnai a
truccarsi. Era bellissima. La tenemmo due anni e mezzo, sempre con l’ansia
dentro perché le avevano sostituito la valvola mitralica. Scoprì la vita e
tornò nel suo Zimbabwe, dove si è diplomata come estetista, la sua passione. Ora
è felice. E’ tornata di recente per farsi cambiare la valvola”.
Pensa a Josephine come a una figlia, Concettina Di Filippo, riminese ma con
famiglia di origine salernitana, il nome ereditato dalla nonna paterna. Di
scelte per gli altri ne ha fatte tante, mettendosi dalla sua Spadarolo,
frazione di Rimini, al centro di una rete infinita di bisogni e di impegni
civili e religiosi. “Quando studiavo alle magistrali pensavo che mai e poi mai
avrei voluto insegnare. Andai a lavorare in una multinazionale americana, ma i
bambini del quartiere incominciarono a chiedermi ripetizioni di italiano o di
matematica, si passavano la voce, così a un certo punto mi resi conto che di
allievi ne avevo avuti una cinquantina. E capii che insegnare mi piaceva. Così
ho fatto domanda tardi. Ora faccio la supplente nella scuola primaria”. Si è
laureata in teologia. Impegnata in parrocchia da catechista, iniziò a porre un
problema che le stava molto a cuore: ma perché la chiesa era così rigida verso
i separati e risposati? Perché negava loro la comunione? “Sa, il problema per
la chiesa è soprattutto la nuova unione. Io ero critica verso le posizioni
ufficiali. Ed ero abbastanza conosciuta per le mie convinzioni. Così don Paolo
Bernadini mi disse ‘Hai delle idee buonine, perché non ti iscrivi all’ Istituto
superiore di Scienze religiose’? Mi iscrissi, mi diplomai e poi mi laureai in
teologia a Bologna. Tesi di laurea: ‘Matrimonio e divorzio: quali conseguenze
per il credente. Dallo stato di grazia allo stato di redenzione’”.
Gasp, verrebbe da dire. Poi ci pensi e ti rendi conto che i grandi cambiamenti
avvengono anche attraverso queste piccole invisibili battaglie. “Ho trovato
ascolto anche in persone importanti. Una volta l’arcivescovo di Rimini,
Francesco Lambiasi, ha celebrato una messa proprio per i divorziati risposati. Una
scelta cauta, delicata. Ma è stato un evento apripista”. Sia chiaro, però,
l’unione di Concy è felicissima. Matrimonio nel ’99 in una chiesetta di collina
e, in affido protetto, un bimbo di tre anni, per il quale dire che va matta è
poco. Subito dopo l’affido è diventata mamma di Francesco che oggi va verso
l’anno, capelli biondi e occhi chiari. “Con queste due bellissime presenze in
casa ho dovuto chiudere i miei impegni pubblici, davvero non ho più niente da
raccontare”.
 

Già perché un tempo lontano Concy fu tra i giovanissimi che portarono nella Rimini gaudente le denunce scomode dell’antimafia. “ Eravamo squattrinati. E per risparmiare sul costo dei volantini ce li facevamo mandare da Bologna o da Venezia. Arrivava la telefonata: il pacco era sul portabagagli del tale scompartimento della tale carrozza. E noi a cercare al volo, con la paura che il treno ripartisse. Per fortuna è arrivata internet, che non costa e ti mette in contatto con un sacco di persone. Ora per esempio…”. Ah, ecco, dunque Concy fa ancora qualcosa… “In effetti sì. Fare la mamma ti impedisce certe attività, ma ti aiuta a capire meglio il territorio, a vederne i bisogni, a capire i vuoti della politica. Così ho colto che cosa vuol dire davvero ‘riminizzare’il territorio, costruire ovunque. Qui a Spadarolo manca un parco per i bimbi. Perciò abbiamo fatto un comitato via facebook: ‘Un parco a Spadarolo’. E stiamo aprendo una vertenza con l’amministrazione comunale. Quanti siamo? Circa duecento. Lo scoglio duro, come diciamo a Rimini, siamo una decina”. Rieccola la madonnina infilzata. Altro che tutta casa e chiesa…

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