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Giovanni Falcone. A proposito di Boccassini-Ingroia
Il Fatto Quotidiano, 2.2.13
Ma quale maledetta cupio
dissolvi si sta riversando sul paese che chiede legalità e pubblico decoro?
Quale patto con la follia abbiamo mai stretto per gli appuntamenti decisivi
della nostra democrazia? Ci mancava pure il duello Ingroia-Boccassini, con i
suoi contorni velenosi, con il suo mettere in palio anche le memorie più care.
Per quel che mi riguarda provo gratitudine per Giovanni Falcone, che fece l’impossibile
per darmi giustizia (e ancora mi rimprovero di non averlo difeso con ogni
energia dalle insinuazioni con cui lo colpì a un certo punto un’ala del
movimento antimafia). Provo gratitudine per Ilda Boccassini, per come ha retto
le prove a cui l’ha chiamata nelle diverse fasi della sua vita l’interesse
della Repubblica. Provo gratitudine per Antonio Ingroia, per i rischi che si è
assunto cercando di portare ai livelli più alti la ricerca della verità sulla
storia sconcia dei rapporti tra mafia e politica, mafia e istituzioni.
Per questo vedo ora con sconcerto due di loro litigare senza esclusione di
colpi brandendo la memoria del primo, il più grande di tutti, Giovanni Falcone.
Perché che Falcone sia stato un faro di conoscenza, di dottrina, di cultura
antimafia non c’è dubbio. Senza nulla togliere ad altri grandi maestri, da
Rocco Chinnici ad Antonino Caponnetto a Paolo Borsellino, il “fratello
putativo” di Giovanni. Ma è altrettanto indubbio che questa sua grandezza
sconsiglia a chiunque di appropriarsene, di considerarsene l’erede o
l’interprete, di farne il punto di partenza per scomuniche pubbliche o per
botta e risposta che sembrano ideati da un implacabile regista negli studi di
Arcore. Lo dico da osservatore (ma anche per memoria diretta). Non è vero che
Falcone parlava solo con le sentenze. Ho sulla mia scrivania “La posta in
gioco”, raccolta dei suoi interventi in decine di convegni, pubblicata postuma nel
1994. Ricordo un incontro alla festa dell’Unità a cui partecipai con lui e
Gerardo Chiaromonte, una folla immensa e tesissima. O una sua presenza al
circolo “Turati” di Milano. Le sue interviste televisive. E quel capolavoro di
sapienza antimafiosa che è ancora oggi “Cose di Cosa Nostra”, il libro
intervista realizzato nel 1991 con la giornalista Marcelle Padovani. O le sue
presenze universitarie, tra cui l’ultima all’università di Pavia dal suo amico
Vittorio Grevi. Non parlava affatto “solo con le sentenze”. E faceva bene.
Perché aveva bisogno di spiegare, di far capire, di svolgere la sua funzione
preziosissima di pioniere intellettuale. Semmai la lezione di Falcone è
un’altra: ed è il senso della misura. Infinito. Come la sua pazienza, come il
suo senso della responsabilità, esercitato a dispetto del decennio drammatico e
insanguinato in cui gli toccò di vivere. Ricordo una telefonata con lui, in cui
mi espressi criticamente contro l’allora ministro dell’Interno Antonio Gava e
l’allora presidente della prima sezione penale della Cassazione, Corrado
Carnevale. Lui smussava, temperava; cercava, anche in privato, di valorizzare
le loro ragioni. Mai lo si sentì attaccare in pubblico i suoi avversari, che
erano molti e ovunque. Nemmeno la certezza di essere destinato alla morte lo
fece sentire libero da quel dovere eroico della misura. Al massimo, dopo che
avevano attentato alla sua vita con il tritolo dell’Addaura, parlò di “menti
raffinatissime”. Mai volle dare l’immagine di istituzioni alla mercé di gelosie
o rivalità viscerali, nemmeno dopo l’ingiuria che gli fece il Csm dei “giuda”
(espressione di Borsellino) sbarrandogli la strada a capo dell’ufficio
istruzione di Palermo. Mai insultò, mai diede l’immagine di un’antimafia
lacerata. E anche di questo dobbiamo essergli grati.
Questo viene spontaneo di pensare assistendo increduli al rimbalzo delle accuse. Ma una cosa va aggiunta. Personalmente non ho condiviso la scelta di Antonio Ingroia, come di Piero Grasso, di candidarsi, e nel caso di Ingroia di farsi leader politico. Per molte ragioni, a partire dalla convinzione che la magistratura debba sempre essere e sembrare al di sopra delle parti. L’uno e l’altro mi hanno rappresentato le proprie obiezioni, che non trascuro. Devo però dire che non ho mai visto in decenni di magistrati candidati al parlamento una concentrazione di forze e di espressioni ostili, anche abissalmente diverse per reputazione e intenzioni, come quella che si è realizzata contro Ingroia. D’accordo, si è candidato a leader. D’accordo, ha messo in fibrillazione i più alti poteri dello Stato. D’accordo, c’è paura per il premio di maggioranza al Senato in Lombardia. Ma non è scattata ancora una volta la Grande Punizione? Sotto le critiche legittime, sotto le eterne asprezze delle campagne elettorali c’è un odore inconfondibile di zolfo. Guai a non sentirlo.
Nando
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