Una borsa marrone. Trent’anni dopo

 

Qui Milano, domenica. Mi rendo conto, solo ora che ci torno,
di avere praticato un involontario silenzio-blog. Ecco come le cose si
accavallano e ti tolgono il senso del tempo. E per prima cosa dirò ai
blogghisti (che se lo meritano) ciò che ho già detto a “Repubblica” e a un Tg
Rai sulla vicenda della borsa di mio padre. Come forse sapete, un anonimo ha
mandato una lettera alla procura di Palermo, corredata di indicazioni e notizie su lontani delitti di mafia e
relative indagini-depistaggi. Per quanto riguarda il prefetto dalla Chiesa ha
fatto riferimento (riporto da “Repubblica”) a due fatti: la sua borsa marrone
sarebbe stata trafugata dopo il delitto da un ufficiale dei carabinieri; il
prefetto si sarebbe fatto allestire un ufficio informale in sede diversa dalla
prefettura, davanti al comando provinciale dei carabinieri, a contatto diretto
con l’Arma. Di questo secondo fatto non so nulla, ma ci sta perfettamente nella
psicologia di mio padre. Riservatezza, luoghi più protetti di quella prefettura
colabrodo… Sul primo fatto posso dire invece qualcosa di più concreto. Mio
padre aveva effettivamente una borsa marrone, che si portava sempre dietro nei
suoi spostamenti di lavoro, sin dagli anni della lotta al terrorismo. Ci eravamo
chiesti dove fosse finita ma avevamo pensato, in assenza di precedenti, che
fosse scomparsa nel trambusto e nel disordine folle che avevamo trovato a
Palermo (le stanze dell’ufficio, per esempio, non erano sigillate). La nostra
attenzione si era tutta concentrata sul mistero della cassaforte: trovata vuota
e senza chiave, con quest’ultima che compare incredibilmente una settimana dopo
in un cassetto vuoto nel quale avevamo già cercato…Invece c’era anche la borsa…
Ecco, tutto questo, oltre a inquietarmi, mi fa riflettere sulla assurdità della
legge che ha stabilito che i collaboratori di giustizia possano rilasciare
dichiarazioni valide solo nei primi 180 giorni dall’inizio della loro
collaborazione. Il presupposto è che ciò che uno sa lo racconta nei primi sei mesi.
Dopo, i magistrati rimarrebbero in balia di una memoria a comando, dalla voglia
del pentito di compiacere qualcuno o di procurarsi indebiti vantaggi. Perché
non l’avrebbe detto infatti nei ben sei mesi avuti a disposizione?
Ecco, credo di non potere essere sospettato di scarsa propensione alla collaborazione
con i giudici, o della voglia di centellinare a mio vantaggio le notizie in mio
possesso. Eppure credo (credo…) che se qualcuno andasse a rivedersi le mie
deposizioni non troverebbe, per le ragioni che ho detto, alcun riferimento a
quella borsa marrone. Della quale parlo perché qualcuno me ne ha sollecitato la
memoria e suggerito la possibile importanza. Dopo trent’anni, non dopo sei
mesi. La memoria è una cosa strana, mi capitò una volta anche per un rilievo che
mi fece mia sorella Rita, dopo alcuni anni(e mi precipitai dai giudici…).
Vedete un po’ con che conoscenza delle umane cose si fanno le leggi.
Soprattutto quando certi interessi premono e trovano varchi aperti nella nostra
cultura…

 

Leave a Reply

Next ArticleSolidarietà in salsa Buccinasco. Le domande di Marina Terragni. E il bel clima di rivolta