La bocca buona della Lombardia. E qualche motivo di speranza

Il Fatto Quotidiano 28. 2. 13

La vergogna, dice. Non è bastata? Il fatto è che
qui è da un pezzo che la vergogna non genera traumi. Ma andiamo con ordine. Da
quando esistono le elezioni dirette dei presidenti di regione, la distanza tra
centrodestra e centrosinistra non è mai stata, in Lombardia, così ridotta. In
alcune occasioni l’asse Berlusconi-Bossi-Formigoni ha perfino doppiato
l’avversario. Dunque non è vero che nulla sia cambiato, soprattutto osservando
il risultato di Milano, che riafferma e consolida l’effetto Pisapia. Certo
stavolta la speranza di cambiare a livello regionale era stata forte. Come era
possibile, ci si chiedeva, confermare alla guida della Lombardia uno
schieramento di forze, di interessi e di culture che ha letteralmente
saccheggiato le risorse regionali, che ha inflitto colpi di immagine durissimi
a tante cosiddette “eccellenze” lombarde, e che ha promosso ai vertici politici
e amministrativi, sanità compresa, uomini e ambienti legati alla ‘ndrangheta?
Si dice che in democrazia l’elettore ha sempre ragione. Ma un conto è dire che
la sua volontà deve essere rispettata, nella scelta di chi governa e di chi va
all’opposizione. Altro è porsi il problema di che cosa abbia potuto portare a
incoronare di nuovo chi per sua colpa, sua colpa, sua grandissima colpa ha
spinto la Regione Lombardia
in un fradiciume di corruzione, di inchieste giudiziarie e di collasso del
prestigio istituzionale.
Davvero si può non sentire il bisogno di sottrarre un bene comune così
imponente alla frenesia degli interessi privati, allo spolpamento di lobby e
correnti? Davvero non interessa restituirlo al principio del merito e
dell’austerità dei bilanci in un’epoca in cui ogni euro va speso con la massima
parsimonia e utilità possibile? Si può certo obiettare che vi sono zone della
Lombardia dove i partiti del centrosinistra sono afoni e perfino assenti,
vissuti come elementi del paesaggio politico più che come fucina di idee, culla
di dinamismo culturale o imprenditoriale. Si può aggiungere che se Formigoni si
fosse candidato sarebbe stato un tracollo. E che Maroni (partito molto prima e
con molti più mezzi di Ambrosoli) è riuscito a piazzare plasticamente la doppia
immagine vincente della ramazza anticorrotti e degli arresti dei mafiosi
latitanti da ministro dell’interno.
Ma lo stesso ci si chiede sconcertati che cos’altro debba accadere perché
finalmente funzioni quel principio tanto pragmaticamente inalberato dal popolo
lombardo delle valli e della ricca provincia pedemontana: se fai bene ti
premio, se fai male ti mando a casa. Come in azienda. La risposta vera (per
quanto parziale) è che una quota
molto ampia dell’elettorato votante ha ritenuto che chi governava abbia in realtà
“fatto bene”. Una quota molto più larga, sicuramente, delle clientele
beneficiate, dei medici promossi per affiliazione pseudo-religiosa, dei
fedelissimi dell’identità neoceltica, dei nemici giurati della magistratura. La
crisi, si dirà. La crisi che non consiglia il salto nel buio verso Ambrosoli,
che induce a rafforzare i canali clientelari per spuntare per sé o per la
propria impresa qualche pubblico favore. La crisi che fa chiudere gli occhi sul
lusso della legalità e della correttezza. Ecco, proprio questo è il punto, al
netto della ramazza di Maroni. Il lusso della legalità, l’ingombro, la camicia
di forza delle regole quando bisogna pur frugare in ogni angolo per
sopravvivere. Qui sta forse il nodo che il voto lombardo ci consegna. Si è
formato nel tempo un popolo ricco, non il popolino dei bassi napoletani, che
sulla legalità ha la bocca buona, decisamente molto buona. Che non per nulla ha
fatto da sfondo e da contorno (innocente, nella propria convinzione) a una
sequenza di scandali e ruberie che vanno dagli anni ottanta del novecento a
oggi. Che pur di non prendersi la responsabilità della propria connivenza o
partecipazione a un sistema immagina ciclicamente un lavacro entro cui gettare
i propri idoli, da Craxi a Bossi, da Di Pietro a Formigoni, di volta in volta
vissuti come benefattori o come eroi salvifici. Votare per Berlusconi è un po’,
per gli appartenenti a questo popolo, come votare per se stessi, anche se c’è
un abisso tra l’eldorado del leader e le loro briciole. E’ il voto identitario
di chi può sentire pronunciare una frase vergognosa come quella sulla
magistratura “mafia peggiore della mafia siciliana” e non pensare che la misura
è colma, perché altro urge all’orizzonte dell’indignazione.

E’ il capovolgimento della tradizione austroungarica, del moderatismo deferente e timorato di Dio, dell’illuminismo partecipe dei destini degli altri, di quell’impasto insomma che teneva insieme la città e la campagna facendo della Lombardia una regione moderata e progredita, individualismo e solidarismo. Un capovolgimento dettato, dopo la crisi di Tangentopoli, dall’egemonia strabordante di una provincia per la quale davvero lo Stato era come un’azienda, e che ha imposto la sua cultura (nelle versioni leghista, berlusconiana e ciellina) anche alla metropoli. La vittoria di Pisapia prima e di Ambrosoli poi a Milano racconta che quella egemonia è finita. E fa sperare in un nuovo primato della cultura cosmopolita del capoluogo. In un futuro in cui la legge e i buoni principi di Ambrosoli tornino a essere la base del progresso e non un rischio per la convivenza civile.

Leave a Reply

Next ArticleLa protesta dei clown tedeschi. E l'apoteosi dei laureati veri (i miei...)