L’Italia che non si squaglia. In 150.000 tra la gioia e i versi di Neruda

 

Il Fatto Quotidiano 17.3.13 

E allora dovevate
esserci. Se siete tra quelli che dicono che non si sa più in che cosa credere,
dovevate esserci, a Firenze. Venerdì pomeriggio nella sala dei Cinquecento di
Palazzo Vecchio, tra gli affreschi di Leonardo e Michelangelo. O ieri mattina
nelle vie che dalla Fortezza da Basso portano allo stadio di Campo di Marte. Dovevate
guardare con occhi vergini i tremori, le emozioni, i sorrisi, gli applausi, le
indignazioni, le speranze, i brani di storia italiana. La mafia, certo. Ma
anche la strage del treno di Viareggio, anche la Moby Prince, e l’Aquila, e
l’amianto, e la Thyssen Krupp, e perfino le pallottole vaganti che uccidono nella
notte di capodanno lasciando nella disperazione una giovane mamma. Perché Libera
è diventata il vero luogo del paese in cui i deboli e le vittime cercano
giustizia e provano a sconfiggere le proprie solitudini. “Pensavo che quella di
mia figlia, uccisa dagli assassini della Sacra corona unita quando decise di
lasciarli, di rompere con la droga e di dare un futuro alla bambina, fosse una
storia da rinchiudere nella vergogna. Finché un giorno ho sentito don Ciotti e
ho capito che non era così. Oggi mia figlia è tornata in vita”. La sala dei
Cinquecento, che proprio non basta ad accogliere fisicamente questo pezzo della
storia d’Italia, fa esplodere la commozione nell’applauso che affratella.
Dovevate esserci per capire le ragioni vere della forza delle mafie. “Mio padre
era maresciallo dei carabinieri. Venne ucciso in piazza mentre il suo superiore
prendeva il caffè con il boss e per non restare coinvolto nella sparatoria tirò
giù la serranda del bar. Quando l’Arma, dopo un’indagine interna, punì il
superiore con un trasferimento, il consiglio comunale gli manifestò invece
ufficialmente la sua gratitudine”. “Cercavo protezione per mia figlia contro
quei delinquenti. Chiesi al maresciallo di potergli parlare. Mi diede
appuntamento di notte in una piazzola della superstrada ma non venne. Poi mi
fece sapere di stare attenta, era meglio lasciar perdere, quei tipi erano
pericolosi”. “Dopo le intimidazioni e gli attentati con cui cercavano di fermare
la mia azione di sindaco, chiesi al prefetto più attenzione per quel che stava
accadendo. Lui mi disse che davanti al mio portone non sarebbe stato acceso
nemmeno un cerino. Un cerino no, ma la bomba che uccise mio padre sì”.
Massimiliano e Maria Rosaria persero il padre Domenico Noviello, imprenditore
con la schiena diritta, grazie a un oculista di Pavia che dichiarò la cecità
del killer di camorra facendolo uscire dal carcere. Tracimano di queste viltà i
racconti che si inseguono il venerdì pomeriggio. La zona grigia, la
vigliaccheria, la corruzione, la paura. La vera montagna che fa la differenza
nella lotta contro la mafia.
Sono una comunità sempre più grande, i familiari. Perché i poteri criminali
uccidono tutti gli anni. Perché c’è sempre chi decide di venire per la prima
volta, come Cristina, la figlia di Bruno Caccia, il procuratore capo di Torino
ucciso nell’83, appunto trent’anni fa. Perché c’è sempre qualcuno che prova a
portare qui la sua domanda di giustizia dopo essersi viste sbattere in faccia
tutte le porte del mondo. Centinaia di storie, un’infinità di umiliazioni come
medaglie, che si fanno pezzo insanguinato ma dignitoso e indomito della più
vasta storia d’Italia.
 

Nomi e cognomi che intessuti insieme danno l’idea di uno Stato in cui credere, di una società che non si piega al denaro e alla convenienza. Recitati insieme, tra le strade e i monumenti del più grande Rinascimento della cultura occidentale. Le bandiere lilla, gialle e arancioni galleggiano sul fiume immenso di giovani. Si è raccolta un’umanità speciale: Bettina Caponnetto, la vedova novantenne del grande giudice fiorentino, che sul palco sembra una regina, Cesare Prandelli che applaude con umiltà l’elenco delle vittime, figli che fissano muti negli occhi i padri o le madri al suono del “loro” nome, gli amministratori coraggiosi riuniti in “Avviso Pubblico”, quella irripetibile combinazione di lutto e di gioia che scoppia puntuale a questo appuntamento. Ecco in che cosa credere, questa è materia che non si squaglia. Non percentuali di voto che vanno e vengono, non cariatidi in cerca di potere o rivoluzionari che guardano il proprio ombelico. Ma l’Italia che non si è voltata dall’altra parte. Sono i suoi valori, riassunti da centinaia di nomi, a dire ciò in cui si può credere, come hanno deciso di fare ieri le centocinquantamila persone arrivate da ogni parte d’Italia, ragazzi partiti in pullman alle quattro di notte, venuti a Firenze non per vedere la città, ma per esserci. Convinti  che le bandiere della giustizia, della Costituzione e della lotta alla mafia siano quelle che vale la pena di tenere sollevate. Sono loro che senza volerlo ripetono ai ciechi e agli orbi quel che Neruda rispose in poesia quando gli chiesero perché non parlasse delle nevi e dei vulcani del suo paese natale: “venite a vedere il sangue per le strade/ venite a vedere il sangue per le strade/ venite a vedere il sangue per le strade”.

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