Il Centro “Giuseppe Impastato”. Storia di Umberto e Anna

 

Il Fatto Quotidiano, 5.5.13

Era di maggio nel 1980. Trentatré anni fa. Fu allora che il
Centro siciliano di documentazione sulla mafia venne intitolato a “Giuseppe
Impastato”. Pezzi di storia gloriosa e qualche volta misconosciuta. Tutto era
iniziato nel 1977, quando due giovani contestatori, Umberto Santino e Anna
Puglisi, marito e moglie dal ’72, scelsero di pensare un po’ meno
all’imperialismo e più alla forza crescente della mafia e fondarono il centro.
Sembrava una iniziativa retrò, provinciale, in un’Italia che viveva il canto
del cigno della rivoluzione giovanile, tra agguati all’alba, indiani
metropolitani e p38 agitate e usate per le strade. Passò un anno e un giovane
di Cinisi, Peppino appunto, venne fatto a brandelli dalla mafia di Tano
Badalamenti nel modo che sappiamo. Vite parallele, poiché anche Peppino
testimoniava lo slancio rivoluzionario attraverso un sessantotto tutto suo:
altrove Vietnam e centralità operaia, lui Cosa nostra e l’eroina. Si era
presentato alle elezioni comunali di quell’anno nelle liste di Democrazia proletaria.
E, da morto, venne eletto. Questo lo sanno tutti. Quel che però non si sa è che
l’ultimo comizio, l’11 di maggio del’78, venne tenuto al suo posto proprio da
Umberto Santino, chiamato dai compagni di Peppino a reagire alla violenza
mafiosa. Due anni esatti dopo Umberto decise con Anna di intitolargli il
Centro. “Non perché fosse mio amico, non ci frequentavamo, io avevo nove anni
più di lui. Ma perché seppi che veniva da una famiglia di mafia. E questo per
noi ebbe subito un valore enorme. Doveva diventare il simbolo di ciò che era
possibile”.
Sono trascorsi decenni. Marito e moglie, che apparivano allora così diversi a
chi li avesse visti per la prima volta, si sono andati assomigliando sempre di
più. L’antimafia li ha modellati, li ha come fusi, mentalmente, fisicamente,
nella realizzazione del loro generoso progetto. Decenni trascorsi a raccogliere
materiale, a cercare testimonianze, a catalogare, a organizzare convegni. A
scrivere, anche; perché in particolare Umberto ha scritto decine di libri,
alcuni di valore assoluto. “A quale tengo di più? Alla Storia del movimento antimafia, questa grande storia di
liberazione, iniziata con i Fasci siciliani e che non si è ancora
conclusa”. Loro due e, con loro, un
pugno di volontari. Con la sede ricavata eroicamente nella propria abitazione
divisa a metà: di qui casa Santino-Puglisi, di lì il Centro Impastato. Chi
faceva tesi di laurea sulla mafia veniva mandato qui da tutta Italia, nella
certezza che avrebbe trovato consigli e bibliografie di eccellenza. Oltre a
qualche ironia al vetriolo sul proprio relatore, perché Umberto è scorbutico,
polemico, anche se capace di dolcezze imprevedibili.
Ma uno dei veri, grandi meriti storici del Centro è stata una battaglia da
molti e a lungo considerata marginale: quella, infinita, per dare giustizia a
Peppino Impastato. E a Felicia, la mamma ribelle, e a Giovanni, il fratello
minore. “Abbiamo fatto dossier, ricostruzioni, abbiamo ottenuto che Chinnici
prima e Caponnetto poi dichiarassero quella morte orribile un omicidio di
mafia, anche se non se ne poteva identificare l’autore; abbiamo fatto riaprire
l’inchiesta quando poi si seppe che Salvatore Palazzolo, membro di una famiglia
vicina a Badalamenti, si era pentito. Finché la giustizia della Repubblica ha
indicato nel boss di Cinisi, che era poi uno dei più grandi capimafia in
assoluto, il mandante dell’assassinio”. E non basta. Perché Umberto e Anna si
sono pure battuti per fare istituire dalla Commissione parlamentare antimafia
uno speciale comitato, presieduto da Giovanni Russo Spena, per ricostruire il
depistaggio delle indagini sull’assassinio. “E anche lì abbiamo vinto. Visto
che il depistaggio era prescritto, volevamo che almeno la storia non
dimenticasse. E alla fine la tesi delle
deviazioni compiute da uomini della magistratura e dei carabinieri, è stata
messa nero su bianco da una larga maggioranza”. L’Italia avrebbe capito l’importanza
di quella ventennale battaglia solo nel 2000, quando a Venezia un film
destinato a fare epoca e cultura, “I cento passi”, avrebbe raccontato a una
platea di spettatori commossi fino alle lacrime la storia del giovane di Cinisi
salutato ai funerali da una selva di bandiere rosse.
Umberto e Anna ora hanno un altro, più ambizioso progetto. E’ la loro eredità
per Palermo. “Sogno un Memoriale della lotta alla mafia. Uno spazio
grandissimo, dove si possa coltivare la memoria, vedere film, studiare. Un
museo internazionale perché Palermo è stata capitale di mafia ma anche di
antimafia. Gli regaleremmo i settemilacinquecento volumi del Centro, e anche i
miei duemila libri di storia e scienze sociali. Ho settantaquattro anni, e
questo Memoriale vorrei vederlo nascere e crescere insieme con Anna. Palermo se
lo merita. Sto rivolgendo appelli al Comune e a tutte le istituzioni. Ma
perché, non sarebbe giusto farlo?”.
 

L’intellettuale polemico, aspro, torna dolce sotto gli occhialini. Lui che non ha mai avuto finanziamenti pubblici (“tranne una volta per una ricerca europea sulla droga, scriva di darci il 5 per mille”) sogna quel che non potrà mai fare da solo, e nemmeno con la sua Anna, nel frattempo nominata commendatore della Repubblica nel 2008 per avere “valorizzato il contributo delle donne nella mobilitazione antimafia”. Lo guardi e provi ammirazione. Dietro, c’è una storia dedicata alla più grande e rischiosa causa della sua Sicilia. Da quel comizio dell’11maggio del 1978, in cui arringava chi lo guardava da sotto le finestre chiuse, fino ai dibattiti di questi giorni. Giorni di anniversari. Pio La Torre, Portella delle Ginestre. E Cinisi, naturalmente.

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