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Giulio Andreotti. Piccole memorie (sul “Fatto Quotidiano” di ieri)
Non posso negarlo. Con lui avevo una questione personale.
Per via dell’assassinio di un prefetto che mi era caro. Ucciso a Palermo il 3
settembre del 1982. Che era stato al suo diretto servizio: lui capo del
governo, il prefetto -allora generale dei carabinieri- alla guida della lotta
al terrorismo. Una settimana dopo quel 3 settembre venne intervistato alla
festa dell’Amicizia (ossia della Democrazia cristiana) da Giampaolo Pansa. Che
gli domandò perché non fosse andato ai funerali del prefetto. “Perché
preferisco andare ai battesimi”, rispose lui mandando in sollucchero il
pubblico. Era la sua ironia, quella che deliziava politici e giornalisti cortigiani.
Poi andò dai democristiani siciliani e li invitò tra gli applausi a respingere
“il falso moralismo di chi ha la bava alla bocca”. Ricordai perciò subito quel
che il prefetto mi aveva detto passeggiando in campagna qualche settimana prima
di essere ucciso, per spiegarmi perché gli fosse così duro rappresentare la
legge a Palermo: “gli andreottiani ci sono dentro fino al collo”. Feci a un
quotidiano alcuni di quei nomi, invitando a cercare nei loro ambienti di
partito i mandanti del delitto e mi costò un marchio di infamia. Scoprii poi
che l’uomo politico si era pubblicamente pronunciato contro la nomina a
prefetto della vittima sostenendo che il vero pericolo venisse da Napoli e non
da Palermo, dove pure avevano tirato giù in pochi anni tutte le più alte
cariche istituzionali. Scoprii ancora che il prefetto, dopo un’intervista del
sindaco (andreottiano) di Palermo aveva scritto al capo del governo, Giovanni
Spadolini, di essersi sentito minacciato “dalla famiglia politica più inquinata
del luogo”. Parole grandi, cupe, che Spadolini, galantuomo, lasciò senza
risposta. Scoprii perfino che il prefetto neonominato era stato invitato a colloquio
dal suo ex superiore e gli aveva “dato però la certezza che non avrò riguardo
per i suoi grandi elettori in Sicilia”. E che questi gli aveva risposto facendo
misterioso riferimento al rientro in Italia di Pietro Inzerillo in una bara e con
un biglietto di dieci dollari in bocca. E scoprii ancora (me lo disse il
giudice Falcone) che il kalashnikov che aveva ucciso Totò Inzerillo, il fratello
di Pietro, era lo stesso che aveva ucciso il prefetto.
A volte le questioni personali fanno vedere ciò che gli altri non vedono, per
pigrizia, per sonno della ragione, o per questioni personali eguali e
contrarie. A volte danno perfino il coraggio di dire ciò che gli altri
tacciono. Fu allora che decisi di scrivere un libro per raccontare quel
“delitto imperfetto” che aveva lasciato sullo sfondo alcune sagome ben
individuabili. Lontane, sfumate, ma visibili. Come quando nulla di preciso si
sa sui fatti ma molto si capisce del clima morale e delle affinità elettive. Prima di avvisi di garanzia e di processi.
Per proteggermi scrissi il libro di nascosto e lo feci uscire
in Francia. Pubblicarlo in Italia fu proibitivo, perché l’uomo era potente e
riverito. Era rimasto quasi trenta volte immune da richieste di autorizzazione
a procedere in parlamento. E lo avevano appena applaudito a scena aperta anche alla
festa dell’Unità (del Partito comunista) a Roma. Quando il libro uscì con
Mondadori, grazie a Giulio Bollati e a Corrado Stajano, lui vergò per me sul
“Messaggero” il suo commento: “spero che possa pentirsi di quel che ha scritto”.
Proprio così: “pentirsi”, non “ravvedersi”. Il marchio di infamia divenne a
vita, perché il potere ha memoria di elefante e impersonale, si tramanda nelle
generazioni. Chiamato a spiegare queste cose nel maxiprocesso, prima dichiarò
il falso poi alluse a cose cattive dette dal prefetto nei miei confronti. Ne
venne richiesta l’incriminazione in aula, ma ne uscì con un espediente da
allibire. Alla fine il prefetto ebbe giustizia inaspettata in Cassazione. La
mafia per vendicarsi delle mancate promesse di impunità uccise il capo degli
andreottiani in Sicilia, i cui ricchissimi amici erano già finiti senza scampo
nel processo. Lui dimenticò le cresime e anche i battesimi. E quella volta,
dieci anni dopo, scese a Palermo per un funerale. Perché, come diceva Mao, ci
sono morti più leggere di una piuma e morti che pesano come montagne.
Nando
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