Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono utilizzati cookie di terze parti per il monitoraggio degli accessi e la visualizzazione di video. Per saperne di più e leggere come disabilitarne l'uso, consulta l'informativa estesa sull'uso dei cookie.AccettoLeggi di più
Mafia al nord, se i giudici non vedono (scritto sul “Fatto” di oggi)
Lo dico o non lo dico? Ma sì, diciamolo. Dio ci scampi dai
magistrati. Da molti di loro, almeno. Al nord, sulla mafia. E’ il momento di
lanciare un grido d’allarme. La mafia al nord è dilagata in pochi decenni, la
‘ndrangheta in particolare ha attuato veri e propri processi di colonizzazione,
fino a esercitare il controllo del territorio in molte aree del Piemonte, della
Lombardia, della Liguria, dell’Emilia. Lo dicono relazioni di commissioni
parlamentari, rapporti della Direzione investigativa antimafia, operazioni di
polizia, carabinieri e guardia di finanza, libri, inchieste giornalistiche,
denunce di associazioni, ricerche accademiche. E soprattutto ce lo dicono molte
indagini giudiziarie.
E qui sta la contraddizione. Perché se le complicità politiche, le miopie
culturali, i pregiudizi etnici, i ritornelli che “qui non siamo a Palermo”,
sono stati alla fine costretti in
ritirata, lo si deve soprattutto ad alcune grandi inchieste che hanno avuto per
protagonista la magistratura. Inchieste sfociate, già dagli anni novanta, nello
scioglimento anche al nord di alcuni consigli comunali per infiltrazione
mafiosa. E in una montagna di condanne in via definitiva. Solo che da un po’ di
tempo sta accadendo qualcosa di preoccupante. Quel che alcune Direzioni
distrettuali antimafia fanno, quel che la Direzione nazionale antimafia
sostiene, viene azzerato o misconosciuto da una pletora sempre più numerosa di
magistrati di ogni ordine e funzione. Magistrati giudicanti di primo e secondo
grado, magistrati di Cassazione, ma anche pubblici ministeri. Processi
disfatti, negazione dell’esistenza dell’associazione mafiosa su questo o su
quel territorio, festeggiamenti dei clan assolti come nella migliore tradizione
siciliana degli anni settanta, sgomento e senso di abbandono nei cittadini e nell’opinione
pubblica.
All’origine c’è soprattutto una tragica inadeguatezza culturale, che viene a
galla, quasi per necessità statistica, quanto più si allargano le inchieste e i
processi in cui venga contestato il reato di associazione mafiosa o appaiano
indiscutibili i presupposti per contestarlo. Il magistrato medio, al nord, sembra
ragionare più o meno come il politico medio. Pensa che la mafia nella sua
regione non esista davvero, o comunque faccia cose diverse rispetto al sud. In
fondo non conosce davvero la mafia, la sua storia, le sue logiche di azione, le
sue costanti, la sua duttilità, il suo linguaggio. E dunque, non conoscendola,
non la “riconosce”. Di più, mostra spesso di non conoscere nemmeno la legge
istitutiva dell’associazione mafiosa, il famoso 416 bis, che costò la vita al
suo ideatore, Pio La Torre. Sicché usa con tutta evidenza una legge che sta
nella sua testa ma non nel codice. Il risultato è che per condannare
un’organizzazione mafiosa al nord sembrano talora necessarie prove dieci volte
più grandi e numerose di quelle sufficienti per ottenere una condanna al sud
(al netto delle connivenze, si intende). Recenti clamorose assoluzioni o rinvii
in appello, che hanno riguardato un po’ tutte le regioni settentrionali
interessate, ci restituiscono scenari che abbiamo conosciuto nella Sicilia di
trenta, quarant’anni fa, e di cui tutto il paese, a partire proprio dalla
magistratura, ha pagato prezzi altissimi.
Certo, un collaboratore di giustizia come Saverio Morabito, che molto ha spiegato della ‘ndrangheta di Buccinasco e Corsico, ha ben raccontato come fosse facile ai clan garantirsi l’impunità corrompendo giudici e poliziotti; proprio come in quella lontana Sicilia. Ma lì allora e qui oggi i meccanismi principali dell’impunità sembrano essere soprattutto culturali. E’ forse ragionevole sostenere che al nord la mafia non uccide, quando disponiamo di una contabilità impressionante, forse ignota al cittadino comune, ma che un magistrato non può ignorare? E’ ragionevole sostenere che al sud la mafia esercita un potere sul territorio mentre al nord si limita a investire i capitali sporchi e che dunque il reato davvero contestabile sarebbe quello del riciclaggio? E le bombe nei cantieri, e gli incendi dei negozi, e i voti ai politici, e i testimoni terrorizzati? O ancora: è ragionevole sostenere che siccome il tale clan può essere condannato per narcotraffico non vale la pena perdere tempo a dimostrare anche l’associazione mafiosa? A parte i benefici penitenziari impliciti, davvero non si sente la responsabilità di affermare la presenza di un potere mafioso su uno specifico territorio? O questo tocca agli studenti?
E quanto all’articolo 416 bis. Le sentenze più generose vengono giustificate a voce spiegando che il tale personaggio o gruppo non risulta affiliato con certezza a quella singola organizzazione mafiosa. O che non appartiene a un clan riconosciuto storicamente come mafioso. O che non è mai stato condannato in precedenza per associazione mafiosa. E’ un repertorio logico che riscrive per pura auto-immaginazione la legge Rognoni- La Torre. La quale non dice affatto che per essere condannati per associazione mafiosa sia necessario essere passati per un rito di affiliazione. Né che si debba appartenere a una famiglia considerata secolarmente mafiosa. E nemmeno che si debba essere già stati condannati per mafia (!). Quella legge, prodotta dalla profonda esperienza sul campo di La Torre, e da una storia indecente di assoluzioni, e fra l’altro scritta ben prima che Buscetta parlasse di organizzazioni e affiliazioni, chiama in causa solo tre concetti, nitidi e chiari: intimidazione, assoggettamento e omertà. E basta. Non fa riferimento a null’altro.
L’allarme suoni per tutti. Vengono i brividi a vedere il vigore con cui Gian Carlo Caselli nella recente requisitoria al processo Minotauro a Torino ha dovuto, dopo l’assoluzione di primo grado dei clan nel processo cosiddetto “Albachiara”, ricordare l’esistenza della mafia a una città che vide il procuratore Caccia ucciso dalla ‘ndrangheta già trent’anni fa. Il Consiglio superiore della magistratura intervenga. Mandi a scuola tutti i magistrati per studiare un fenomeno sempre più esteso e aggressivo. La professionalità, la professionalità, invocava Falcone, che contro la sua drammatica assenza dovette combattere la più gigantesca delle proprie battaglie. E a proposito. Non è forse il caso di ripetere un monitoraggio delle sentenze della Cassazione come quello promosso da Martelli e Falcone all’inizio degli anni novanta? Allora salvò la Sicilia dalla tirannia sanguinaria di Cosa Nostra. Chissà che oggi non possa salvare il nord dal dominio della ‘ndrangheta.
Nando
Next ArticleLuca Tarantelli, la sconfitta del pudore