Luca Tarantelli, la sconfitta del pudore

Il Fatto Quotidiano, 14.7.13

Luca parla, Luca sfoglia, Luca ricorda. Sembra
un ragazzo ma ha già quasi l’età che aveva suo padre quando lo uccisero. Quarantatré
anni aveva Ezio Tarantelli. Era appena uscito dalla facoltà di economia della Sapienza
di Roma. Il tempo di entrare in auto, poi l’ ultima verifica del boia di turno:
“Professor Tarantelli”, lui che si gira e la raffica che lo scarnifica accanto
al finestrino. Firmato Brigate Rosse. 27 marzo1985. Luca aveva tredici anni. Il
padre aveva animato un dibattito arroventato dall’ ideologia. Economista
progressista, aveva indicato la strada meno popolare per difendere il salario
dei lavoratori, anche se la sua scienza a quella lo portava: intervenire sugli
automatismi della scala mobile, di cui denunciava gli effetti anti-egualitari
per via dell’inflazione che ne veniva alimentata. Un totem sindacale messo in
discussione proprio da uno studioso che lavorava per un sindacato, la Cisl, e
che era vicino per idee politiche al partito comunista. Un punto di
contraddizione insanabile. Luciano Lama, il prestigioso leader della Cgil,
avvertiva le ragioni di quella ricetta ma la rifiutava perché indigesta al
mondo che rappresentava. Le bierre giunsero puntuali a farsi “avanguardia” in
questo scontro di idee, come avrebbero fatto anni dopo con Massimo D’Antona e
Marco Biagi. Gli italiani conobbero Luca in tivù, ragazzino biondo e smarrito che
ripeteva i lineamenti dolci della mamma, Carole Beebe Tarantelli, psicanalista
di Boston.
Dopo quasi trent’anni Luca parla a un pubblico commosso, pochi giovani, pochi
coetanei. Ascoltandolo diresti che lo abbia dominato a lungo una sofferenza
introversa. Fino alla ribellione  che ora
sta lì, nel libro che sfoglia, “Il sogno che uccise mio padre”, scritto dopo
anni di paziente e intelligente ricostruzione storica. Un libro che porta alla
luce strati sovrapposti di Repubblica, neanche fosse archeologia politica.
L’Italia del terrorismo, l’Italia inchiodata al confine tra est e ovest nella
lunga guerra fredda, l’Italia di Berlinguer e di Pertini, patria di un fervore
riformista di cui si è del tutto smarrito lo spessore. Laureatosi nella stessa università
paterna, Scienze politiche indirizzo storico, il figlio ha speso i suoi talenti
per ricordare il padre. E, restituendolo a se stesso, per restituirlo a noi.
Pochi anni fa un film documentario, ora il libro.
Luca parla, sfoglia, si guarda intorno. Nel circolo filologico di via Clerici a
Milano, in quello che potrebbe apparire il luogo più asettico del nostro
immaginario, riemergono immagini di sangue, emozioni angosciose ma anche
nostalgie, parole che pesano, tempi sepolti con le loro vittime. Li rievoca pure
Massimo Cacciari che di Tarantelli fu amico: “Allora l’Europa, il mondo
occidentale, si interessavano dell’Italia. Qui si producevano idee politiche e
pensiero che suscitavano attenzione, l’Italia paese di frontiera era anche considerato
un paese serio, da cui dipendevano i destini altrui; oggi è considerato un
paese da barzelletta, che non conta nulla”. Ecco forse la ragione per cui di
quell’economista si è perso il ricordo, la ragione che ha spinto Luca, dopo
decenni di silenzio, a mandare all’aria ogni pudore per ridarcene la biografia
e le idee. Accanto al suo viso c’è quello di Umberto Ambrosoli, anche suo padre
ucciso, anche lui “verificato” all’ultimo secondo (“avvocato Ambrosoli…”), così
che viene spontaneo pensare a questa generazione di figli, da Mario Calabresi a
Umberto, da Benedetta Tobagi a Luca, che ha aspettato gli anni della prima
maturità per confrontarsi pubblicamente con la propria storia. Perché quella
rimasta tra noi pareva loro troppo stretta, o troppo ingiusta. Strano paese,
questo, che dedica giornate alla memoria ma sembra riluttante a custodirla.

C’è una immagine di Luca che è difficile rimuovere per chi l’ha vista. E’ di tanti anni fa, dicembre del 1990. Era un sabato mattina. Quel giorno circa quattrocento familiari di vittime delle stragi nere, del terrorismo rosso, della mafia e della camorra, si diedero appuntamento davanti a Montecitorio. Per chiedere giustizia. Ciascuno portandosi addosso la foto del proprio caro, come facevano allora le madri di Plaza de Mayo. Un grido di dolore rivolto al paese, e irriso da Francesco Cossiga presidente della Repubblica che ignorò le centinaia di familiari e se ne andò a rendere omaggio alla camera ardente di Vito Miceli, già capo dei servizi segreti e che a qualcuna di quelle storie di ingiustizia non era stato estraneo. In seconda fila stava un ragazzo di diciotto anni. Biondo, la faccia di bambino, immobile, lo sguardo fisso e la foto di un giovane uomo nella mano protesa verso l’alto. Non disse una parola né abbassò la mano per tre ore. Era Luca, illuso che quella foto levata al cielo potesse contare qualcosa, dare giustizia a suo padre, restituirglielo in mezzo o grazie a quella folla sconosciuta e amica. Dopo più di vent’anni ha dovuto scrivere un libro. Perché la storia che resta nelle nostre mani è quasi sempre troppo stretta o ingiusta.

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