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Ernesto, l’oste poeta che sfamava i contestatori del ’68
Il Fatto Quotidiano, 21.7.13
La pesca con il vino. Solo un oste poeta ormai può dartela, mentre impazzano ovunque carpacci d’ananas e fragole surgelate. Ma certo: la tazza di ceramica grezza, il pozzetto di vino rosso, la pesca gialla tagliata a piccole fettine. E in più una mano sulla spalla, come per dire guarda che profumo di abitudini dimenticate. Ernesto è sempre stato così. Libero e nemico di ogni imperialismo, compreso quello gastronomico. La barba grigia da filosofo socratico e lo sguardo ironico-malinconico da personaggio di Garcìa Màrquez, guarda Milano con disincanto dalla sua “Taverna degli amici”: giudici e avvocati e giornalisti e impiegati a pranzo, un mondo misto ma croccante di giovani alla sera, fino a tardi.
Una storia che arriva da lontano. “I tuoi amici del Sessantotto? Certo che li rivedo. Ogni tanto arrivano, sanno che sono qui e vengono a salutare. Claudio, Giovanna, Bubu. Mi fa piacere rivederli. Ma sai che cosa mi mette in imbarazzo? Quando arrivano qui a gruppi. Perché allora me li trovo davanti tutti vestiti e rifiniti come funzionari di banca, e mi viene automatico rivederli dopo le manifestazioni, quando arrivavano a decine e facevano quelle grandi tavolate da Strippoli. E mangiando parlavano di quel che era successo in piazza o in via Larga e brindavano alla rivoluzione”. Già, Strippoli. Era un’ icona dei giovani contestatori milanesi. Prima fu il tempio dei panzerotti in piazza Santo Stefano, quartier generale del Movimento studentesco, poi i locali in via Tibaldi, vicino ai navigli e alla Bocconi, poi quelli in via Boccaccio. Tipica cucina pugliese, che spopolava in un mondo universitario rinsanguato dagli arrivi in massa degli studenti del sud. “Io arrivai da Strippoli in un secondo momento, quando era già in via Tibaldi. E fu il traguardo della mia vita di emigrato”. La storia di Ernesto Notaro emigrato calabrese ha qualcosa di romantico. Nativo di Tiriolo, l’unico paese da cui si possano vedere insieme lo Jonio e il Tirreno, decise di andare a cercar fortuna al nord. Ma non aveva i soldi nemmeno per partire. Glieli prestò un dirigente socialista locale, il padre di Francesco Forgione, l’ex presidente della commissione parlamentare antimafia, che ancora oggi quando è a Milano va a cena da lui. “Trentamila lire, mi diede. Ne spesi otto per il treno, due”, e qui ride, “li scialacquai in sigarette e colazioni perché non ero abituato ad avere tutti quei soldi in tasca, quindici per un letto e gli altri cinque li tenni per vivere finché avessi trovato un lavoro. Glieli ho restituiti tutti”, chiarisce con orgoglio. “A Milano in un giorno trovai un posto da apprendista tornitore. Ma io non sapevo nemmeno che cosa fosse un tornitore. Il datore di lavoro lo capì subito ma per non mandarmi via mi mise a fare le pulizie. Allora Milano era un’altra cosa”. Poi cinque anni sui vagoni letto a vender bibite e far cuccette. E infine l’incontro con Strippoli, il mago delle trattorie pugliesi, fino all’entrata in società con lui.
Fu lì che Ernesto divenne il riferimento di quelli del Sessantotto (ma anche del Settantasette). I ragazzi si intruppavano sapendo il menù a memoria. Orecchiette alle cime di rapa, scamorza alla griglia o puré di fave e cicoria, o salsiccia, e vino rosé di Corato. Commentavano le cariche della polizia, narravano gesta eroiche (le proprie) e viltà (altrui), lui si muoveva intorno complice e accogliente. Non era dei loro, ma per loro provava simpatia, come chi è stato meno fortunato e se ne è andato comunque dal paese con buoni ideali socialisti. Alla fine il conto. Ernesto stava alla cassa. Quanto è?, chiedeva ognuno. Quello che puoi, rispondeva lui. “Proprio così”, e ridacchia, “anche se qualcuno un po’ ne approfittava e io lo capivo benissimo. Ma non me ne sono mai pentito, mica faccio questo lavoro per diventare ricco, chi se ne frega”. Poi, dal ’78, vent’anni di vino all’ingrosso con Strippoli. Finché nel ’97 aprì la Taverna nel centro della città.
Sull’onda del successo provò anche l’avventura parigina. Un ristorante vicino al museo d’Orsay (“e al partito socialista”, ammicca). Da Tiriolo a Parigi, dopo avere sgobbato per decenni. Sembrava una fiaba. A Parigi andava bene. Ma era a Milano che non andava più bene senza di lui. Così tornò e la fiaba finì. Ora è lì che guida con mano e barba sicure la sua impresa, sorvegliando la qualità dei cibi e i modi dei dipendenti. Affiancato da Rita, “l’unica moglie della mia vita”. Tre piani con la cantinetta, zeppi di vini. Dove ora trovi di tutto, il monopolio del rosé di Corato è un ricordo di gioventù. Rubesco, Grumello, Repertorio, bottiglie incartate, pareti rosse con disegni da belle époque, le sedie impagliate. Lui viene vicino con discrezione, anche se potrebbe permettersi ogni confidenza. E capisci che è sempre lui nel momento della verità, quello della frutta: ci sono anguria o pesche. Anche al vino? Anche al vino. Infine il passaggio alla cassa. Difficile ora dire “quello che puoi”, metterebbe in imbarazzo. Allora ti guarda e sussurra “venti euro”. Ancora lui, quasi quarant’anni dopo. E ditemi se tutto questo non è poesia.
Nando
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