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Asinara 2. Colori e fantasie
Leggo della furia pidiellina e berlusconiana per la sentenza
della Cassazione. Mi colpisce un dettaglio: che per fare un comizio abbiano
abbattuto a colpi di sega la segnaletica stradale che intralciava l’organizzazione
degli spazi. Che paese folle, quello dove tutto ciò non solo accade ma viene
concepito come possibile. E pensare che il tutto si riduce ad andare a vivere
per un paio d’anni alla Certosa, in uno dei posti più belli e più ricchi di
comodità al mondo, dopo avere tanto offeso la legge…
L’Asinara non ha quelle comodità ma se qualcuno vuole costringermi a fare
lezione lì per due anni io sono pronto (come ha brillantemente intuito Robertoli,
blogghista insigne). Basta che paghino le trasferte agli studenti. Lì mi godrei
i colori che la mente non concepisce, per povertà di esperienza e di fantasia.
Il direttore dell’Ente Parco ci ha detto che purtroppo non abbiamo visto i veri
colori dell’isola perché il meglio arriva in primavera, essendo quella la
stagione in cui esplode la ricchezza di tinte della natura. Io però di colori
me ne porto nella memoria molti. E ve li racconto alla rinfusa. Il bianco degli
asini, anzitutto. Che è bianco davvero, mica bianco per modo di dire. E che
colpisce quando vedi una distesa mobile di asinelli, grandi e piccini, e
qualcuno ti legge nel pensiero e ti chiede perché ti stupisci, si chiama l’Asinara
perché ci sono gli asini. Oppure il colore della macchia che spande odori di
amore e nostalgia: l’ elicriso, di cui mi venne narrato un giorno a Genova, il
lentisco, la lavanda, la speciale mimosa. O il verde smeraldo delle insenature
che lambisce con rispetto quasi tremulo spiagge bianchissime. E qua e là il
candido lambito che tende al rosa, dice che sono i micro-organismi. C’è
qualcosa di meraviglioso nel fatto che dei micro-organismi, ossia cosine invisibili, possano produrre spettacoli tanto grandiosi, e speri per la vita sociale, ché immagini subito piccoli cittadini senza
potere che insieme costruiscono società civili che rifulgono di lontano.
E poi le combinazioni di azzurro e di blu. Nel mare come nel cielo. Ma anche di
mare e di cielo. Giuro di essermi commosso quando ho preso a camminare sul
campo di calcio abbandonato sopra il carcere bunker. Tirava su quel campo un’atmosfera
romantica, mi sentivo a ogni passo come se procedessi dentro un romanzo scritto
in qualche parte del mondo, ma che qualcuno deve avere scritto, ne sono certo.
Scartavo i cespi spinati e i pallini di capra e guardavo la porta che dà verso
la costa. A un certo punto, quasi all’altezza del fantasma del dischetto del
rigore, mi sono accorto con meraviglia
che dietro la porta c’erano solo due colori, l’azzurro e il blu, equamente
divisi dalla linea dell’orizzonte. Stupendo. Sulla traversa sostava un uccello
scuro. Già, anche i colori scuri lì sono tanti. I falchi che volano dove l’isola
si stacca dal mare, i cinghiali, i barracuda quando di notte arrivano a riva a
branchi, lo stesso rosso cupo del mirto. E il blu mistero del cielo di cui
parlerò a parte. Poi c’erano i colori dei costumi e dei panni stesi ad
asciugare dai giovani. E quella era una macchia tutta speciale. Non invasiva, vi
assicuro, ma natura nella natura. E ci sarà stata una ragione. O no?
Nando
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