L’Asinara, l’isola dove Riina “non dava più ordini”

 Il Fatto Quotidiano, 4.8.13

“E questa è la cella di Totò Riina”. L’ispettore
superiore in pensione Gianmaria Deriu spiega il carcere bunker di Cala d’Oliva
all’Asinara. C’è chi arriva intruppato fra turisti frettolosi e starnazza “aho,
‘anvedi la cella di Riina”. C’è chi, come ora i venti giovani milanesi, ascolta
e cerca il senso di ogni cosa. Lo spazio è di venti metri quadri circa, quanti
nessun normale detenuto si sogna di averne per sé nelle carceri italiane. Un
angolo bagno, un angolo cucina. “Sorvegliato a vista 24 ore su 24, ma non ci
stava quasi mai, andava in giro per processi e arrivava qui in elicottero
quando si fermavano le udienze. Insomma, per le feste comandate: Natale,
Pasqua, l’estate”. L’elicottero atterrava sul campo di calcio che sta sopra il
bunker. Una grande spianata in terra battuta pronta per un racconto di Galeano:
silenzio, sterpaglia e segni di capra; il sostegno di una porta che penzola
nell’aria, l’altra porta aperta, dietro i pali, su tutte le tinte di azzurro. Cielo
e mare, nient’altro. Sfide lontane tra detenuti delle diverse “diramazioni”
dell’isola, per decenni autentica cittadella carceraria.

L’ispettore, la prosa ordinata e precisa, ci ha lavorato trentatre anni. Nel
bunker ha visto Raffaele Cutolo che qui si sposò (“era molto rispettoso”), e il
capo della Cupola; ha visto i capi brigatisti pronti “a fare di tutto un’arma”
(“ma Franceschini si commosse a salutarmi”), i suoi racconti si intrecciano con
pezzi aspri e duri della storia d’Italia. I giovani sono qui per un progetto di
formazione -vacanza: fare le guide al bunker (gestito da Sardegna Solidale e da
Libera) offrendo a centinaia di turisti quel che hanno imparato nei corsi
universitari: le carceri speciali, il 416 bis, la Nuova camorra organizzata, le
stragi del ’92 e il 41 bis e naturalmente il maxiprocesso, Falcone e Borsellino
giunti qui nell’estate dell’85 a scrivere la celebre ordinanza di rinvio a
giudizio. “Stavano lì, alle Case rosse, Falcone si portò una vagonata di
faldoni. La sera veniva al bar nell’ora in cui non c’erano più detenuti al lavoro.
Arrivava dopo mezzanotte per precauzione, si rilassava giocando un po’ a
biliardo. Il loro cibo veniva assaggiato prima”.
Il bunker, certo, ma anche Fornelli, l’altro carcere di massima sicurezza dalla
parte opposta dell’isola. Molto più grande, di qua i terroristi neri di là i
terroristi rossi, ma anche i boss di Cosa Nostra, come Leoluca Bagarella, e poi
quelli di ‘ndrangheta, camorra o Sacra corona unita. Oggi è Parco naturale,
paradiso terrestre. Le insenature mozzafiato, gli aironi, i mufloni, gli asini
bianchi. Le pernici e i gabbiani corsi. Branchi di cinghiali che scendono fino
a mare. Ed edifici abbandonati, le vecchie residenze delle guardie, le caserme,
il mattatoio, i luoghi dei commerci dell’antica colonia di lavoro penale. Per i
giovani è un viaggio nella storia, un impatto straordinario con le conoscenze
acquisite in anni di studi e di letture.
 

Ma l’impatto è onestamente straordinario anche per chi scrive e ricorda bene quegli anni. Qui la memoria del generale dalla Chiesa, a cui nel 1977 venne dato l’incarico di coordinare la sicurezza esterna delle carceri, è vivissima. Le recinzioni, le astuzie per impedire rivolte o evasioni (“i terroristi arrivarono a scambiarsi esplosivo con i baci delle coppie ai colloqui”), la preferenza per le guardie sarde. “Ci diceva che i sardi sono meno corruttibili. Di certo siamo muti di natura. E in più parliamo tra di noi in dialetto. I terroristi erano convinti che parlassimo in codice. Un giorno uno di loro cercò di decodificare una frase detta da una guardia all’altra. Ancora oggi scoppio a ridere: le aveva detto in sardo di andare a trombare un cinghiale”. Fine anni settanta, primi anni ottanta. Sangue e agguati, una guerra dichiarata da una parte sola,  l’incubo di non uscirne mai più. Il carcere per rompere la catena degli ordini. L’isolamento per negare una centralità mediatica. E’ come se tra le mura e i cancelli quel periodo di piombo tornasse prodigiosamente a materializzarsi.
Tutto questo aleggia nei seminari che i giovani tengono ogni sera sul sagrato della chiesa. Argomento: “l’Italia civile dei don (da un felice titolo del Fatto dopo la morte di don Gallo): da don Milani a don Ciotti”. La legalità e la giustizia, il Vangelo e la Costituzione. Altro pezzo della storia d’Italia che a un certo punto si sovrappone del tutto a quello che arriva dalla storia dell’isola. Padre Puglisi e don Diana, l’ala militare dei corleonesi e i casalesi. Il sovrintendente Enrico Mereu incontra i giovani dopo mezzanotte. Sotto un cannicciato a mare, offrendo mirto fatto in casa. E’ conosciuto come l’artista dell’isola, scultore in legno soprattutto. E’ l’unico residente. “Sono arrivato nel gennaio del 1980. Ho fatto la guardia in tredici carceri in tutta Italia. Venni mandato qui da Torino, perché ero nell’elenco delle guardie da uccidere stilato dai brigatisti. Dopo i miei colleghi Lo Russo e Cotugno, c’ero io. Nel 1983 venni inviato all’Ucciardone a Palermo come ‘testa di cuoio’, agente antisommossa. Avevano ucciso da poco il generale dalla Chiesa e comandavano i boss. Il direttore ce lo aveva detto: lasciateli stare o ve la fanno pagare. Una volta venimmo anche rimproverati per avere eseguito sul serio un ordine di perquisizione nell’infermeria. Non sembrava nemmeno di essere in carcere. Tappeti preziosi, poltrone in pelle, frigorifero pieno di champagne delle marche più costose. Ma che cosa avete fatto?, ci venne chiesto. La sera entravano donne alte e formose, ce le facevano passare come ‘assistenti sociali’. Io mi sono sempre sentito un artista, non ce l’avevo nel sangue questo mestiere, però mi domandavo lo stesso che senso avesse farlo in questo modo. Potete capire quindi che cos’ho provato quando ho visto arrivare Totò Riina qui al bunker, chiuso e impotente a dare ordini. Non è durata molto. Nel ’96 notai che tra i detenuti mafiosi si era diffusa una certa euforia. Lo dissi al mio direttore: hanno cambiato atteggiamento. Che cos’era successo? Avevano saputo in anticipo che l’Asinara avrebbe chiuso. Qualcuno glielo aveva garantito prima che lo sapesse il parlamento”. Scivola la notte, nel racconto dell’ex sovrintendente-artista. Si direbbe che per molti anni la storia vera d’Italia, quella che si dimentica ma che ha rischiato di metterci in ginocchio, sia passata da quest’isola. I giovani si guardano stupiti. Una via Lattea immensa, anziché distrarli, ne dilata le domande fino a notte fonda.

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