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Quei cattivi maestri che volteggiano sulla Tav (Il Fatto Quotidiano, 3.9.13)
“Dominio e sabotaggio”. Era il titolo di un celebre “opuscolo
marxista” Feltrinelli della fine degli anni settanta. L’autore era Toni Negri, oggi
rilanciato da Pannella come esemplare di parlamentare-latitante ma soprattutto,
l’altro ieri, cattivo maestro di una
missione “rivoluzionaria” finita con tanto sangue innocente e nessuna
rivoluzione. E “Dominio e sabotaggio” , proprio lui, è uno dei libri la cui
lettura era stata programmata in agosto, trentacinque anni dopo, in val di
Susa. Mentre sempre “Sabotaggio” è la parola usata da Erri De Luca per
legittimare la esigua, benché agguerrita, minoranza violenta del movimento
no-tav. De Luca è uno scrittore sublime, ma quando riaffiora in lui il capo del
servizio d’ordine di Lotta Continua, l’organizzazione che preferì sciogliersi
piuttosto che avallare o combattere il mito della lotta armata, infila
dichiarazioni assolutamente infelici. Come quando ironizzò sugli anni di piombo
affermando di non conoscerli (“Gli anni di piombo? Saranno stati di piombo per
gli idraulici perché ancora non c’era il Pvc”, disse sprezzante pochi anni fa)
e suscitando la reazione di chi ancora oggi cammina zoppicando dopo decine di
operazioni alla gamba per via di quei pistoleri inesistenti.
Il serpeggiare intorno alla Val di Susa di questi riferimenti ideologici e il loro
intrecciarsi con la presenza attiva di chi in passato ha sostenuto (e in
qualche caso anche praticato) la lotta armata non può lasciare tranquilli
coloro che hanno già vissuto i contesti “insurrezionali” e ne hanno visto gli
esiti sciagurati. Non può lasciare tranquillo, soprattutto, il movimento no-tav,
che è largo, popolare e ricco di motivazioni dignitose, le si condivida o meno.
E culturalmente assai meno ambiguo di qualche rado esponente delle istituzioni
valligiane.
Il problema ormai è duplice. C’è quello della tav, un’opera di cui molti non
riconoscono la necessità, denunciandone gli effetti ambientali e sociali, oltre
che il processo decisionale da cui sgorga. E c’è quello delle forme di
conflitto esercitabili nei confronti di un progetto che si intende contrastare fino al limite del possibile. Perché
i conflitti sociali non sono sempre pacifici. La difesa di un posto di lavoro
può portare al blocco di una autostrada o di una linea ferroviaria. Una
manifestazione studentesca può portare allo scontro con le forze dell’ordine.
Ci stava scappando la rivolta popolare perfino ai funerali degli agenti di
scorta di Borsellino. E sono questi i casi in cui ha senso ed è anzi doveroso
esercitare la mediazione politica e istituzionale. Si tratta di forme di
illegalità, certo, ma non eversive. Quando però la violenza viene organizzata,
premeditata, immessa in un progetto che prescinde dai bisogni concreti ma si fa
avventura rivoluzionaria in sé, come proclama il tam tam delle frange estreme
del movimento no-tav, il quadro cambia. Quando in nome del “sabotaggio” si
arriva a chiedere i documenti ai camionisti o a chi si pensa che partecipi ai
lavori in valle, si esercita un potere che nessuna persona libera accetta di
riconoscere a dei privati, poiché essa è esclusivamente e non può che essere,
in una democrazia, dello Stato. E una
persona libera offesa nei suoi diritti avrebbe cento volte ragione a
ribellarsi. In che forma? Anch’essa attuando il “sabotaggio”? Lo scenario, come
si vede, alla lunga si offusca, come sempre. La violenza, in una democrazia,
aumenta la capacità di intimidazione ma decima il consenso. Solo i cattivi
maestri predicano il contrario. Ma se loro sono recidivi, non può essere
recidiva la nostra democrazia, con i suoi ritardi e le sue distrazioni.
Immaginando che ancora una volta tutto si possa scaricare sulla magistratura
(meglio poi se è Gian Carlo Caselli, che troppo osò con Andreotti…). Chi
rappresenta la legge ha il dovere di difenderla. Ma chi fa politica democratica
faccia politica democratica. Che non sempre vuol dire dare direttive o fare
interventi in parlamento. Ogni tanto significa prendersi dei fischi. E dei rischi.
Nando
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