Savina, il teatro che non deve chiedere mai

 

Il Fatto Quotidiano, 15.9.13

Il teatro è la sua emozione. Il teatro è la sua vita. Quando
le chiedi di scegliere qualcosa nella sua storia fa fatica, troppa roba, troppe
persone, dietro il sorriso elegante sfuma una folla di artisti, atmosfere e
cartelloni. “Quali attori o attrici ho preferito? Ne ho incontrati tanti
fantastici, con cui ho scambiato idee, solo a fare dei nomi mi sembrerebbe di
ferire qualcuno. Il regista invece sì, uno che mi è rimasto nel cuore c’è:
Massimo Piparo, quello di ‘Jesus Christ Superstar’, con lui ho avuto un
rapporto di crescita, anche personale”. Savina Scerni è una signora della
borghesia genovese che l’arte scenica ce l’ha nel sangue. Liceo artistico e
accademia di scenografia a Roma, prima il lavoro in azienda con il marito, a
mezzo tempo perché cinque figli da fare e allevare non sono uno scherzo. Poi la
produzione teatrale. Alcune esperienze importanti, come il teatro Margherita a
Genova o il Nazionale di Milano. Quindi il grande passo, la sfida che ha
segnato la sua vita: l’acquisto del Politeama di via Bacigalupo, dietro a
piazza Corvetto, il centro di Genova, uno dei primissimi teatri con i tetti
apribili. Distrutto dalla guerra e rimesso a nuovo negli anni cinquanta ma
quando già su quel tetto-gioiello avevano costruito un palazzo. Comprato da lei
e altri soci nel 1994, “perché ci sparavano affitti spaventosi, abbiamo fatto
un mutuo, i muri saranno nostri solo tra cinque anni”. Mentre l’Italia
consacrava l’egemonia della cultura televisiva lei andò controcorrente. Ivo
Chiesa, grande uomo di teatro genovese, aveva lasciato il Politeama per andare
a Brignole, al suo Teatro della Corte. “Chissà che ne sarebbe stato, magari ne
avrebbero fatto un supermercato. E’ stata una scelta audace, certo: l’unico
teatro privato di Genova. Nelle città italiane c’è normalmente una combinazione
di pubblico e privato, qui no. Riceviamo un contributo dal fondo unico dello
spettacolo, qualche decina di migliaia di euro, e per il resto nulla da comune,
provincia o regione. Se non per qualche accordo a favore dei pubblici meno
abbienti, che è una cosa di cui vado orgogliosa, perché per me teatro vuol dire
anche questo, dare una gioia a chi non se lo può permettere, dalle scuole agli
orfanotrofi alla comunità di don Gallo”.
Osservi questa signora sobria e raffinata insieme e pensi che deve avere del
talento. Millecinquantasei poltrone, su cui si sono sedute generazioni, “ai
saggi di danza le nonne guardano con nostalgia le nipoti esibirsi sul palco su
cui hanno danzato loro”; platea, galleria e palchi, una ventina di posti di
lavoro, un gruppo di progettazione di cinque o sei persone, tra cui Claudia, la
figlia più grande. Dice di avere un segreto semplice. “Vede, noi programmiamo la
stagione cercando di non lasciare fuori nessuno, deve esserci teatro per i
bambini come per i più anziani, per gli intellettuali esigenti e per chi si
vuole divertire in serenità. Quest’anno Albanese, Teocoli, music-hall, siamo
stati tra i primi a promuoverli, ma anche prosa. E poi la possibilità degli
inserimenti all’ultimo momento. E’ il vantaggio della mia libertà. Posso fare
venire anche artisti sgraditi al potere, in fondo non devo fare file infinite
nelle anticamere. La cosa di cui sono più orgogliosa? Forse ‘La gatta
Cenerentola’ di Roberto De Simone, era ad altissimo rischio proporre l’arte
napoletana ai genovesi. Ma poi mi piace andare oltre il palcoscenico, ho questa
passione insana di collaborare con altri. Abbiamo fatto il festival della filosofia, presentazioni di libri,
abbiamo ospitato una gigantesca Fernanda Pivano o anche Gianna Schelotto, diamo
spazio a giovani artisti. A guadagnare ci si sta stretti. In genere le
produzioni si prendono l’80 per cento, a me resta il 20. Bisogna stare attenti
anche ai biglietti omaggio. Pensi che Bramieri i biglietti per i suoi amici se
li comprava. E poi è quasi un batticuore a ogni spettacolo: verranno? gli
piacerà? Sapesse com’è bello andare nei teatri degli altri, quando non bisogna
avere paura di niente e si può solo essere curiosi”.

 

E la crisi, Savina? Non c’è, non si sente? “Certo che si sente, e ho avuto le mie difficoltà finanziarie. Risolte per fortuna da poco, grazie all’incontro con un nuovo socio. Un torinese, gli è bastato che gli raccontassi il teatro, la sua storia e i miei progetti. Venti minuti, non di più, non ha nemmeno voluto vedere i bilanci e mi ha detto ‘ci sto’. Si vede che è il destino, che qualcuno mi ha aiutato (e qui sembra pensare a un altrove che ha pudore a confessarti; nda), che questo meraviglioso gruppo che si è creato negli anni doveva andare avanti”.
“Lei vuol sapere che cosa desidero di più. Fuori dal teatro c’è un mondo grande. Ci sono i figli, c’è un nipotino di due mesi, e poi c’è anche Savina quando me ne ricordo. Ma c’è soprattutto un bisogno di serenità e di armonia. Quello che cerco di dare al mio pubblico con il teatro”. La signora sorride come riesce a lei, sopra un largo colletto bianco. Certo, non parliamo di lirica né di stagioni scespiriane, però l’idea che tenga in piedi un teatro senza soldi pubblici ti sembra di quelle da far sapere. Dunque si può. Anche nella crisi più nera si può.

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