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L’ultima battaglia di Patrizia, militante della legalità
Il Fatto Quotidiano, 29.9.13
“Non ci pensare nemmeno”. Me l’aveva detto con un tono così
perentorio e stizzito che avevo alzato bandiera bianca in un secondo. In genere
le persone sono contente di essere raccontate. Il tempo di schermirsi, “ma
davvero lo merito?”, “ci ha pensato bene?”, poi prevale il piacere di avere
giustizia. Qualcuno che parla di te una volta nella vita. Perché fai parte del
buono e anonimo di cui (per fortuna) vive il mondo.
Lei no. Si era ribellata all’idea di finire in queste “Storie”. In cui quattro
anni fa volevo includerla quando, andando a Verbania, mi ero reso conto delle
cose che stava facendo, delle battaglie in cui era impegnata senza sosta. Senza
arrendersi al male che l’aveva afferrata come un’arpia. Un tumore al cervello,
a trentacinque anni. Come se un cielo
maligno avesse voluto punirla per il bene che cercava di fare in terra. Di quel
male non avrei parlato, lei lo sapeva. Ma rinunciò d’istinto a qualsiasi
elogio, poiché -così immaginai- lo
riteneva suggerito in fondo proprio dalla compassione per la malattia. E
compassione non ne voleva, se è vero che l’ultima parola che ha detto una
settimana fa è stata “smettila”. Rivolta alla madre Vanda che se la baciava disperata
sulla fronte.
Patrizia Guglielmi entrò nella vita pubblica come giovanissima combattente
della legalità in un paese consumato e ridotto allo stremo da bande
inesauribili di ladroni. E alla lotta per la legalità si dedicò appena ventenne,
nella Milano sfregiata da Tangentopoli. Figlia di un operaio dell’Alfa di nome
Palmiro, che aveva eletto a suo simbolico nemico Bettino Craxi, Patrizia aveva scelto di impegnarsi nei
movimenti antimafia. Aveva eletto a suoi simboli i martiri di Palermo, ai cui
anniversari andava -senza che nessuno lo sapesse- nella città delle lapidi a
portare un fiore. Dopo una militanza nel movimento della Rete, era entrata
nella redazione di “Omicron”, l’Osservatorio milanese sulla criminalità
organizzata che produsse le prime analisi scientifiche sulla presenza di mafia
e ‘ndrangheta al nord. Poi si era trasferita con la famiglia sul lago Maggiore,
a Verbania sul lato di Intra. E lì aveva aperto il secondo capitolo della sua
breve e intensissima vita. Si era messa in contatto con il mondo del
giornalismo e dell’associazionismo. Battaglie contro i latrocini e contro la
speculazione edilizia, tema per il quale, stando sul lago, sviluppò una
sensibilità particolarissima. Aveva anche aderito, nel ruolo di simpatizzante,
all’associazione carabinieri, di cui portava il distintivo. Per questo, oltre
che per il rigore sfoggiato come arbitro di canoa, si era guadagnata tra gli
amici il soprannome di “Huber”, personaggio italo-svizzero di lontane gags
televisive di Aldo, Giovanni e Giacomo: una guardia che andava per le spicce
quando voleva ristabilire la legalità violata da un nonnulla, si trattasse di
un’auto in sosta vietata o di un bambino che giocava a pallone su un prato ben
tosato. Aveva denunciato le malefatte amministrative del suo Piemonte
nord-orientale dall’”EcoRisveglio”, bisettimanale “del Verbano-Cusio-Ossola”,
sin dalla sua fondazione, nel 2002. Nel 2004 si era anche candidata come
consigliera comunale nei Democratici di sinistra. Prima dei non eletti, era poi
entrata nel consiglio nel 2008 dopo il ritiro di un consigliere, garantendo una
presenza assidua. Soprattutto creò il presidio di Libera “Giorgio Ambrosoli”,
portando sulla sponda occidentale del lago Maggiore i grandi temi e i grandi
testimoni della lotta alla mafia. Torino, Genova, Milano, Roma, Palermo: per
lei la geografia della legalità italiana non conosceva confini. Riluttante ad
atteggiarsi a pensatrice, era molto incline, invece, a lasciare in ogni
passaggio il segno del suo fare. Chissà che cosa avrebbe inventato ancora
quella ragazza perennemente in pantaloni e golf e camicette, il vestito da usare
come rarità nelle serate di festa, la giacca per metterci il distintivo
dell’Arma, perfetta anomalia per una giovane donna di sinistra. Purtroppo l’invenzione
fu altra, e venne dai cieli più lividi. L’imprevisto assurdo, il tumore al
cervello. Se lo volle affrontare tutto da sola: visite, diagnosi, terapie,
smarrimenti. Gli altri, il mondo esterno, li concepiva d’altronde solo come
destinatari della sua generosità. Chiedere la umiliava. Si batté per le cause
collettive fino alla fine, senza lamentarsi. Tanto che, non sentendone più
nulla, gli amici lontani si erano convinti che avesse saputo battere quel
nemico minore, che cosa vuoi che sia per lei davanti alla mafia e alla
corruzione.
Invece non era così. Se ne è andata lunedì scorso in silenzio, sottraendosi alla vista e alla compassione altrui. Solo le sue colleghe di redazione, Tiziana più di tutte, hanno potuto sapere e stare vicino alla madre. Nei giorni scorsi ne hanno parlato con nostalgia la stampa locale, le autorità amministrative, i giovani dell’antimafia. Per questo mi sento oggi autorizzato a violare quella consegna del silenzio di quattro anni fa, quel “non ci pensare nemmeno”. E a raccontare la commozione provata vedendo accanto al registro dei visitatori una foto, Patrizia con il giudice Gian Carlo Caselli. Perché nessuno dimentichi da che parte sono stati i suoi primi e unici quarant’anni.
Nando
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