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Con Lea. ‘Ndrangheta, la lotta delle donne
Il Fatto Quotidiano, 20.10.13
E’ seduta per terra, Ilaria. Le gambe raccolte con le
braccia intorno, le mani che tirano giù le maniche della felpa scura, quasi a
trovarci un impossibile riparo. Sotto i capelli neri, lunghi e ricci i due
occhi grandissimi continuano a bagnarsi. La bellezza giovanile e disadorna
appare stupefatta dalla commozione. Tiene lo sguardo al palco su cui è deposta
la bara, che lei stessa ha portato lì a spalle insieme ad Andrea, un giovane
torinese, e ad altre quattro ragazze: Martina, Silvia, Jessica, Marta, dalla
provincia di Pavia a quella di Bergamo. Cinque giovani donne per portare con la
prima solennità della vita i resti leggerissimi di una donna che oggi non arriverebbe
ai quaranta. Ilaria guarda don Ciotti, tra rose, girasoli e margherite, un’infinità
di margherite, mandate in regalo da un floricoltore di Vittoria. Ascolta le
brevi parole in diretta di Denise e piange, lo fanno in tanti, anche gli
adulti, nella piazza intitolata a Cesare Beccaria, il giurista che mise al
bando la pena di morte. Lavora a Coop-Lombardia, Ilaria, politiche sociali. Conquista
le scolaresche quando parla dell’impegno del movimento cooperativo per fare
arrivare sulle tavole i prodotti dei beni confiscati alle mafie. Ma l’incontro anche
fisico con la storia di Lea sembra averla restituita per un giorno agli
sgomenti dell’adolescenza.
Un po’ più in là c’è Martina, anche lei è arrivata presto per partecipare da
vicino. Anche lei un po’ più che ventenne. Sta dall’altra parte delle transenne,
appoggiata alle sbarre con i grandi
occhiali che riescono appena a nascondere l’emozione che arriva a fiotti, tra
le note di Battiato, Capossela, Vasco e De André, quelle preferite da Lea.
Fotografa spesso, come a fissare immagini che resteranno nella sua vita di
giovane schierata da qualche anno dalla parte dell’antimafia: una ricerca sul campo
sulla ‘ndrangheta in Germania destinata, dice con orgoglio, a uscire in questi
giorni su “Narcomafie”. Un po’ dietro c’è Sara, l’impegno civile fatto ragazza.
Lei scatta foto in ogni direzione. I capelli ricci castani, la faccia splendida
e impunita, è ormai una habituè dei campi confiscati, è stata in Calabria a
studiare lo sfruttamento dei migranti di Rosarno. Poi a Wrexham, in Galles, in
un centro di accoglienza per le ragazze nere vittime del traffico di umani. Sta
partendo per un progetto di studio all’estero, prima Tarragona poi Beirut. Non
si contiene, Sara, ci mette minuti ad asciugarsi le guance, quando Enza Rando,
l’avvocato di Denise, legge il testo di una lettera straziante scritta da Lea
Garofalo. Una lettera mai spedita, indirizzata al presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano. Dignitosa, consapevole. Sono una madre sola e disperata,
dice, e so solo quale sarà la mia fine: sarò uccisa. Una richiesta di aiuto per
sé e per le persone nella sua condizione. Asciutta, breve, terribile. Sara non
resiste. Avvolta in una delle bandiere arancioni con il volto di Lea e la
scritta “io vedo, io sento, io parlo”, si fa fuscello, come atterrita dal clima
evocato da quelle parole, scritte in chissà quale cucina, tinello o sala
d’aspetto.
Poi c’è un’altra Ilaria, che ai venti non arriva. Che sta conducendo al liceo
Viriglio di Milano, avanguardia del movimento antimafia nelle scuole cittadine,
un ciclo di lezioni proprio sulla mafia. I capelli biondi raccolti indietro,
presenta programmi, tira fuori i suoi libri, spiega, distribuisce la parola
agli ospiti, dà appuntamenti per il momento del “fare”. C’è anche la sua
solarità nella folla, a organizzare la piazza. E con lei Marilena, che invece
studia fisica ed è stata tra le decine di giovani che per due anni si sono dati
la staffetta a Palazzo di giustizia per stare idealmente accanto a Denise, la
coetanea mai vista, perché anche quando ha testimoniato era schermata da un
paravento. Davvero una giornata di emozioni e di dignità civile, guidata da
questa “meraviglia di gioventù”, come ha detto dal palco don Ciotti. Con tanti
ragazzi, naturalmente. Se qui si è parlato solo di ragazze, è perché la loro
rivolta civile ha un senso particolare. Il potere più maschilista e totalitario
ha pensato che uccidere e bruciare una donna fosse un fatto privato,
giustificato dalle leggi dell’onore. Le ragazze invece dicono che è un grande
fatto pubblico. Nelle loro speranze, la sconfitta della ‘ndrangheta in
Lombardia partirà dalle donne. Destinate a ubbidire e invece ribelli. Destinate
a tacere e invece testimoni collettive. L’antimafia con gli occhi lucidi ha,
ancora una volta, un orgoglio femminile.
Nando
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