Fatti che sono simboli e simboli che oltrepassano i fatti. Ancora sui funerali di Lea Garofalo

 

Piazza Beccaria, Milano, ieri sabato mattina. E’ stata un’esperienza
immensa, credetemi. I funerali di Lea Garofalo resteranno uno dei fatti più
importanti, esemplari, una delle più grandi svolte nella storia della lotta
alla mafia, e non solo al nord. Chi non ha vissuto la temperie vera, le sofferenze
e i coraggi di questa lotta può non capirlo. Ma è così: come i lenzuoli bianchi
a Palermo nel ’92 (“e che ci fanno i lenzuoli alla mafia? Il solletico…”), come
la fiaccolata muta del 3 settembre dell’83 per ricordare il prefetto dalla
Chiesa (“e che ci fanno le processioni alla mafia? Sai che paura…”), come l’intitolazione
di via dello Stadio a Pippo Fava a Catania il 5 gennaio dell’85 (“e che ci fa alla
mafia una targa di cartone messa da quattro carusi?”). Bisognerebbe ripassarla
tutta la storia di Lea per capire piazza Beccaria. Le sue paure, il suo
colloquio drammatico con don Ciotti (“se mi capita qualcosa lei non deve mai
lasciare sola mia figlia”), la sua scomparsa, la denuncia di Denise, la sua
vita di ragazza braccata e clandestina, il processo, le ragazze e i ragazzi di
Milano che ci vanno dandosi il turno per due anni, i Cosco che, pur condannati
all’ergastolo, continuano ad avere in mano come proprio fortino l’edificio
pubblico (pubblico!) di via Montello, la collaborazione del più giovane degli
imputati, il ritrovamento dei resti in Brianza, la scelta di trasformare nel
fatto più pubblico possibile quel che la cultura del clan pretendeva fosse un fatto
privato.
Vedere arrivare quelle ragazze con la bara sulle spalle, con quella solennità
imparata forse per la prima volta solo ieri, con la sofferenza in faccia sotto
il cielo grigio compatto di Milano: ecco, è stata un’immagine indimenticabile.
Indimenticabile anche l’esperienza di portare la bara: leggerissima, quasi da
stupirti, perché “dentro non c’è niente”, come urlò disperato un poliziotto alla cattedrale
di Palermo al passaggio delle bare degli agenti di scorta di Borsellino. Da
ieri Milano è città più degna e civile. E le sue (tante) giovani donne
antimafiose la rendono ancora più degna e civile. Per la cultura mafiosa (la
mafia non c’è, sono fatti privati, la gente ha ben altro a cui pensare, la
vittima è sempre un po’ colpevole…) è stata una sconfitta sonora. Visto Basilio
Rizzo, il presidente del consiglio comunale, commosso come tutti, forse ancora
di più. Ho avuto l’intuizione che fosse anche per il suo essere e sentirsi
calabrese; suo padre da lì venne a Milano, con una famiglia che -così mi
raccontò un giorno- per mangiare la sera andava a raccogliere le erbe e le
insalate nei campi. Gliel’ho chiesto e lui me l’ha confermato. “Sì, per tutto
il mattino ho pensato alla mia terra. E ho anche pensato che sarebbe stato
bello potere dire due parole in dialetto”. L’ho trovato un desiderio bellissimo…
(dei due anni di interdizione dai pubblici uffici di B. parleremo un’altra volta; qui non mi va…)

 

Leave a Reply

Next ArticleVulcanici progetti antimafiosi. Giudici di provincia. E il prossimo Pd milanese