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Andreotti e Craxi: memorie personali… (sul “Fatto” del 10. 11. 13)
Ci mancava pure la nuova bufala. Dalla Chiesa fu fatto
uccidere da Andreotti e Craxi perché “ce l’avevano sul collo”, ha dichiarato il
pentito di mafia Francesco Onorato, ascoltato a Palermo nell’ambito del
processo sulla trattativa tra Stato e mafia. C’è solo da sperare che ora questa
non diventi la nuova “verità inconfessabile”, il nuovo “mistero” della storia
repubblicana a cui si affezionano, “a prescindere”, giornalisti o giallisti di
mafia. Qualcosa tipo le carte di Moro stipate nella cassaforte del prefetto,
secondo le ambigue testimonianze di personaggi che mio padre disistimava
profondamente. Ma credute con tenacia irriducibile da plotoni di “esperti da
lontano”.
Andreotti, dunque. Che la corrente andreottiana fosse immersa fino al collo
nella vicenda che portò alla strage di via Carini l’ho sempre pensato e detto.
Lo dissi e lo scrissi quasi in assoluta solitudine trent’anni fa, l’ho
riscritto e l’ho ridetto ogni volta che ho ritenuto giusto farlo, nei tribunali
come nei libri o negli incontri pubblici. Che quella corrente fosse la più
intrisa di mafia, la “più inquinata del luogo”, lo scrisse, inascoltato, mio
padre stesso al capo del governo Giovanni Spadolini. E lo disse direttamente
pure a Giulio Andreotti che aveva voluto vederlo prima della partenza per la
Sicilia, avvisandolo che non avrebbe avuto “riguardo per i suoi grandi
elettori” nell’isola. Né, ovviamente, si può dimenticare la posizione con cui
Andreotti è uscito, nonostante le grida trionfali di amici e sodali, dal processo
a cui fu condotto dalla procura di Giancarlo Caselli: “prescritto” per mafia.
Non è dunque il riferimento al suo nome che mi meraviglia, anche se queste “novità”
che arrivano a freddo dopo trent’anni mi inquietano e mi pongono interrogativi
seri e più generali su strategie e comportamenti recenti di certi pentiti
“minori”.
Quel che davvero suona come bufala è il riferimento a Bettino Craxi. Il quale
(diversamente da Andreotti, che negò di suo pugno che esistesse un’emergenza
mafiosa) sostenne con convinzione l’invio di mio padre a Palermo. Al punto che il nuovo prefetto venne
visto dalla parte più compromessa della Dc come colui che aggredendo il sistema
mafioso avrebbe oggettivamente squassato il potere democristiano in Sicilia a
vantaggio del partito socialista. Partecipai a una discussione accalorata,
incredula, di mio padre con un amico, tutti e tre seduti a un tavolo della
villa di campagna, tre settimane prima del delitto. L’amico gli rappresentava
la diffidenza dei vertici democristiani, convinti che lui fosse (testuale) “un
cavallo di Craxi”. E mio padre, visibilmente allibito che questa potesse essere
“la” o “una” ragione del suo isolamento, replicò di avere servito lealmente per
quarant’anni ministri degli interni tutti democristiani. Se, come sempre si
dice, nulla di ciò che la mafia fa è leggibile al di fuori di un contesto e di
logiche politiche, questo fu il contesto.
Nessuno può accusarmi di avere nutrito tenerezze verso il craxismo. Ci sono le
annate di “Società civile”, il mensile che dirigevo a Milano negli anni
ottanta, a dimostrarlo. Credo anzi di avere ben pagato l’ avversione al
craxismo in occasione della mia candidatura a sindaco di Milano nel 1993. Ma mi
sentirei colpevole di avallare il falso se non dicessi che fu proprio Bettino
Craxi, visibilmente provato anche emotivamente da quel che era accaduto, a
difendermi dai pubblici furori che seguirono le mie denunce della matrice
politica del delitto. Poi in pochi anni un bisogno di coerenza mi portò su
posizioni lontane e anche contrapposte alle sue, ma questa è la verità.
Guai a perdere la memoria meticolosa, sofferta, ribelle, dei fatti. O la storia potrà rifarla un pentito che, se le sfumature semantiche hanno un senso, ancora prova qualche compassione per Totò Riina (perché “stanno pagando solo i mafiosi”) o un malcelato orgoglio per il passato di killer agli ordini dei corleonesi: “Io ero uno dei prediletti, perché fare parte del gruppo di fuoco della commissione era come fare parte della nazionale di calcio. I migliori mafiosi entravano in squadra”. Grazie no, la storia che ho vissuto (e denunciato) non me la faccio rifare da questo pentito.
Nando
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