L’avvocato marziano, tra arte e deontologia eversiva

 

Il Fatto Quotidiano, 17.11.13

Affonda come una lama, l’avvocato. La voce gentile snocciola
dottrina e deontologia eversiva in un silenzio assoluto. La sala della Gran Guardia
di Verona è affollata di colleghi, molti giovani e molte donne. Fuori, sulla
piazza che affaccia su un’Arena bianco candido, piove a dirotto. E più parla
più ti chiedi da dove mai sia giunto questo elegantissimo marziano. Vincenzo
Todesco ha l’abbigliamento che una volta si sarebbe detto da intellettuale di
sinistra: giacca di velluto marrone, camicia di flanella, cravatta rossa di
Marinella. L’ha invitato l’unione dei giuristi cattolici, qui presieduta dall’avvocato
Francesca Luciani, diritto di famiglia. Tema del convegno: il giudice nella
società che cambia. In ricordo di Rosario Livatino, giudice ragazzino ucciso
nel settembre del ’90, il più cattolico tra le vittime di mafia, e per questo
prossimo alla beatificazione. Davanti a monsignori e magistrati e principi del
foro l’avvocato sembra un educatissimo rullo compressore. Un’antologia
implacabile dei doveri professionali. Non dei magistrati, ma della sua
categoria.
Legge fogli scritti a mano, i passaggi evidenziati o sottolineati a più colori.
Contesta il diritto trionfante nel ventennio fascista, quell’idea autoritaria
secondo cui se l’avvocato difende l’imputato sapendolo colpevole non difende
l’imputato ma il crimine. Ma contesta anche il diritto trionfante nel ventennio
berlusconiano, quello che ha reso cosa buona e giusta sottrarre l’imputato al
processo. Tedesco si è tuffato nella dottrina, nei principi del nuovo processo,
pensa a Vassalli e Pisapia e sembra trarne la forza per sovvertire le
convenzioni del suo tempo. L’avvocato, spiega con toni miti, deve difendere
l’imputato al massimo delle sue capacità; ma dopo che in coscienza ha fatto
tutto quello che poteva, lì deve fermarsi. Non può andare oltre, né violare le
regole, né sottrarre il suo assistito al processo.
“Un marziano? Certo che lo sono”, ride di gusto. “Lo sa dove sono adesso? Alla
libera università di Anghiari a tenere un corso di scrittura, il passaggio
dalla scrittura  autobiografica a quella
del romanzo. Lo faccio da anni, venni qui la prima volta a sentire Duccio
Demetrio docente di filosofia dell’educazione alla Bicocca e mi è piaciuto,
così oggi ci insegno. Amo l’arte. Faccio teatro dal ’70, ho anche recitato, ma
lo uso soprattutto come occasione di formazione. Per detenuti maghrebini come
per giovani in difficoltà. L’ho fatto in Puglia, dove sono stato tra i
fondatori del Kismet di Bari; ma ho fatto teatro anche in Polonia o a Milano”.
“Vuol sapere del mio intervento dell’altro giorno a Verona? Vede, i miei
colleghi non capiscono una cosa. Il nuovo processo ci ha messo in condizione di
partecipare davvero alla formazione della prova, di ottenere da un giudice
terzo la verità processuale più alta possibile, di ottenere una sentenza
‘giusta’. Ci assegna un fine etico altissimo, che dà prestigio al nostro ruolo.
Se noi lo abbandoniamo, perdiamo anche il nostro prestigio. Nel dibattimento
dobbiamo tirare fino all’estremo la contraddizione tra la tesi dell’accusa e la
nostra, ma rispettando le regole. Non si può accettare, per capirsi, che un
avvocato sottragga un documento dagli atti giudiziari. De Marsico definiva
l’avvocato il ‘consorte necessario’ dell’imputato nel processo. Capisce? Il
consorte. Solo che mentre l’imputato è libero di mentire, l’avvocato non può.
Ma l’imputato non ama accettare questo limite alla difesa. Vuole uno che non lo
faccia condannare, che lo tiri fuori dai guai comunque. E tanti miei colleghi d’accordo con me sui
massimi principi, lo sanno benissimo e si comportano di conseguenza. Perché in
carcere si passano la voce, e ti chiamano per quello, e a trasgredire la
deontologia si guadagna di più. Perciò si costruiscono tortuosi percorsi
personali, l’amicizia coi giudici, le cene”.

 

L’avvocato marziano deve portarsi dentro questi pensieri da tempo. “ L’avvocato si perde nel particolare, pensa che la sua deontologia stia nella probità, nell’informare il cliente, non pensa che stia nell’assumersi l’onere e la bellezza di questo fine, la sentenza giusta. Se sono cattolico? No, nemmeno credente. Ma i cattolici che mi ascoltavano in quel convegno sono forse gli unici che hanno ancora dei valori. Vede, io ho una venerazione per quei magistrati che per fare bene la loro professione rischiano la vita, scelgono di vivere con la scorta, una cosa che io non farei mai. Penso a Falcone. Penso a Caponnetto che a Palermo, per mantenere integra la sua indipendenza, visse quattro anni in una caserma della Finanza senza vedere la città. Ecco, noi dobbiamo essere all’altezza di quei livelli. Non possiamo fare abuso del diritto come gli avvocati di Berlusconi”. Potenza delle coincidenze, le parole fluiscono quasi con lo stesso accento veneto di Niccolò Ghedini… Come chiamare questo giurista raffinato che ha l’arte nel sangue, un figlio musicista che fa il chitarrista jazz a Londra, e una figlia che fa lettere moderne a Torino? Sognatore, eversivo, moralista? Forse in fondo è “solo” un grande avvocato: e il fatto di non pensarlo subito è una spia del diritto ai tempi che furono di B. I tempi in cui il parlamento passava interi mesi a decidere se si potesse applicare o no la legge all’uomo più ricco del reame.

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