Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono utilizzati cookie di terze parti per il monitoraggio degli accessi e la visualizzazione di video. Per saperne di più e leggere come disabilitarne l'uso, consulta l'informativa estesa sull'uso dei cookie.AccettoLeggi di più
Giuseppe Ferrrara, il vecchio leone con la protesta in tasca
Il Fatto Quotidiano, 1.12.13
La voce è orgogliosa,
stanca. Come quella di un combattente che ci ha dato dentro tutta la vita e ora
non ci riesce più. Vorrebbe ancora, ma non ce la fa. Il suo nome non dirà nulla
o quasi ai giovanissimi che progettano il cinema del futuro, tra idee e tecnologie
d’avanguardia. Forse nemmeno a molti nuovi cinefili. Ma c’è stato un tempo in
cui il nome di Giuseppe Ferrara, regista militante, tornava continuamente sulle
bocche dei giovani che volevano cambiare il mondo. Per un seminario in
università, per un’autogestione a scuola, per il celebre (e famigerato)
dibattito da cineforum. Si potrebbe chiamare Giuseppe Ferrara, diceva sempre
qualcuno. Era una sicurezza: stava dalla loro parte ed era generoso. Arrivava
con l’eloquio baldanzoso, facendo sfoggio di un anticonformismo toscanaccio;
gli piaceva essere accolto come il regista estraneo a ogni compromesso e che perciò
faticava a farsi finanziare i suoi progetti. Portava spesso il giubbotto, si
atteneva a un interiore divieto di cravatta, e soprattutto si scatenava nel
denunciare i misfatti del potere in un paese costretto a scoprirne tutti i
giorni. Descriveva appassionato i misfatti domestici ma anche quelli
internazionali, tanto che nell’era dei colpi di Stato divennero proverbiali le
sue arringhe contro la Cia. Sul piano tecnico se ne apprezzava una
particolarità: aveva avuto il coraggio di mescolare nei suoi film la finzione
con le immagini di repertorio. Non sempre la fusione artistica riusciva a
perfezione ma a volte dava risultati davvero coinvolgenti.
Di lui si può dire che ha attraversato la vita con la protesta in tasca. Già a
scuola, come raccontava di sé ogni tanto; poi alla facoltà di lettere di
Firenze, dove prese la laurea con una tesi sul nuovo cinema; o nei primi
cineforum organizzati da ragazzo. E quindi da giovane regista, sempre con la
voglia matta di smontare tutto lo smontabile. Non gli bastava che si mettesse
la realtà al posto dell’evasione. Occorreva la denuncia, scoprire il lato
oscuro del mondo. I misteri del Palazzo, i complotti contro le democrazie, la
mafia, i soprusi che bruciano le carni. La fretta di correre contro
l’ingiustizia, di mettere se stesso e il suo mestiere al servizio delle
contro-verità ne fece un regista e documentarista inquieto, con l’ansia perenne
di lasciare il suo segno nella battaglie dei decenni che si susseguivano. Basta
prendere l’elenco dei film e dei documentari per vederlo, ripassarsi già solo
alcuni dei titoli: “Le streghe di Pachino” (primo incontro con l’omertà in
terra di Sicilia), “Il sasso in bocca”, “Faccia di spia”, “Cento giorni a
Palermo”, “Il caso Moro” (premiato a Berlino con l’Orso d’argento), “Giovanni
Falcone”, “Segreto di Stato”, “I Banchieri di Dio- Il caso Calvi”, “Guido che
sfidò le Brigate Rosse”. Altri film, di cui pure ha scritto la sceneggiatura,
non ha potuto mai girarli per l’indisponibilità dei produttori. Come nel caso
del lavoro scritto con Floriana Mastandrea su “L’agabbadora – la morte
invocata”, un romanzo di Giovanni Murineddu sulla
antesignana sarda della moderna eutanasia.
Oggi Beppe Ferrara non ce la fa più. Ricordo quando lo conobbi di persona, dopo
averne tanto sentito parlare e avere visto le sue opere (quasi obbligatorie) negli
anni lunghi della contestazione. Era la fine dell’82. La voglia di “esserci”
gli usciva dalla pelle. Voleva assolutamente fare un film sugli ultimi cento
giorni di vita a Palermo del prefetto dalla Chiesa. Si documentava, faceva
domande, voleva capire. Sull’onda dell’emozione popolare riuscì a trovare i
contributi di associazioni, sindacati e credo anche istituzioni. Usò come
protagonista un grande dello schermo (Lino Ventura), cosa che non gli era
consueta. Ne venne un film che non ho mai voluto vedere per intero per
personalissime ragioni, ma che certo ebbe, e ha ancora, un grande successo
nelle scuole. Frutto del suo entusiasmo da leone, perché ricordo bene il teatro
milanese in cui una domenica aveva chiamato il mondo associativo ad avviare la
sottoscrizione popolare: ventotto persone.
Sentirlo stanco, con l’orgoglio affannato del vecchio combattente, sentirne la
difficoltà di dirti che è malato, che ha le malattie che qui non voglio dire
per pudore, è stato come fare entrare un tarlo nella testa.
Oggi Giuseppe Ferrara, l’ottantunenne regista che i giovanissimi non conoscono, lotta contro la miseria e la malattia. E contro lo sfratto da casa, che verrà eseguito nei prossimi giorni. Avevo letto della richiesta di riconoscergli gli aiuti della legge Bacchelli per cittadini illustri in povertà. Firmata, tra gli altri, da Dacia Maraini e da Ettore Scola. E anche da Carlo Lizzani, pochi giorni prima di uccidersi… Ne avevo letto ma sentire la sua voce -uno, due minuti- è stata un’altra cosa. Così come scorrere la lettera che, ripercorrendo la sua vita, ha inviato al presidente del Consiglio per chiedere l’applicazione della Bacchelli. E’ stato quasi doloroso trovarvi la richiesta di potere “vivere dignitosamente gli ultimi anni della propria vita”. Ma quanto sarà costato quel passaggio, quella richiesta di aiuto, al vecchio leone costretto dopo più di mezzo secolo a fermare la sua corsa contro l’ingiustizia?
Nando
Next ArticleLa gioiosa morte del Porcello. E il popolo del mio Ambrogino