Armando Spataro. Lezione di storia ai ventenni

Il Fatto Quotidiano, 8.12.13

Certe cose, se le vedi, devi raccontarle. Armando
Spataro, magistrato di punta della Procura milanese, non è certo un milite
ignoto della nostra democrazia (ossia non è il tipico esemplare di queste
“Storie italiane”). Ma la questione cambia quando lo vedi tenere un incontro
con un gruppo di studenti universitari fuori dai riflettori o dalla frenesia
delle foto digitali. Quando lo vedi affrontare una piccola platea di giovani senza
che nessuno lo sappia, perché -vivaddio- non tutto si fa perché gli altri lo
sappiano. Università itinerante. Questo è il progetto in cui il giudice accetta
di entrare come chansonnier della
propria storia. Perché i ventenni sappiano attraverso la sua vita qualcosa in
più della storia d’Italia. Capiscano attraverso la sua lotta al terrorismo
rosso, quindi ai clan mafiosi e infine al terrorismo internazionale a che
diavolo di intrecci si riferisca quell’idea di “legalità difficile” che dà il
titolo al corso anomalo che, fuori dalle aule, si invola per i luoghi più
diversi, da Milano a Torino alla Sicilia.
Lui sente l’orgoglio di potere raccontare loro una vita di cui non deve
nascondere nulla. L’arrivo a Milano da Taranto nel 1976, giovanotto ancora
infatuato della pallanuoto. Pochi mesi a Palazzo di Giustizia, il tempo di
annusare il clima, e poi la richiesta del procuratore capo: se la sente di fare
il pm nel processo alle Brigate rosse? Non esistono eroi, sottolinea il giudice
ai giovani. Ci sono volte in cui senza volerlo si finisce a occuparsi di certi
processi, come se il destino e non la tua volontà ti avessero risucchiato
dentro un compito che segnerà la tua vita.  Ricorda il primo processo, le parole
allusivamente minacciose del difensore di Renato Curcio, quella sorta di
protezione professionale che viene a dargli in udienza un giudice di poco più
anziano, si chiamava Emilio Alessandrini.
Ne parla di quel giudice mite, coraggioso e senza scorta, davanti a ragazzi che
a stento l’hanno sentito nominare. Racconta di quando lo uccisero e lui si
trovò davanti all’auto dell’amico rannicchiato nel sangue, senza sapere che
fare. La voce gli si rompe, perché non basta un terzo di secolo a congelare le
emozioni. Non riesce ad andare avanti, si forma un silenzio rispettoso e
incredulo. In quel momento, in quel preciso momento, Alice e Giorgia, Samuele e
Mattia, capiscono meglio che cos’è la legalità difficile. Non solo storia di
complicità mafiose, ma anche storia di complicità a sinistra con i “compagni
che sbagliano”. Intreccio maledetto di pavidità, di rischi, di sofferenze, di
solidarietà umane; di cretini anche, come Marco, il figlio di Alessandrini, ritiene
fossero gli assassini del padre.
Vedere un ultrasessantenne costretto a bloccare la voce sulla frontiera del
ricordo. Vederlo avvicinarsi al racconto di Guido Galli e del suo assassinio accelerando
le parole e soppesando le pause, per paura di farsi riagguantare dall’emozione
una seconda volta, perché non sta bene che un giudice tanto famoso torni
all’anticamera del pianto una seconda volta in mezz’ora: che penseranno mai gli
studenti di un giudice che deve reggere responsabilità tanto grandi e che ha le
fragilità emotive di un adolescente? Questo sembra essere il suo timore, specie
quando viene a sapere che in prima fila tra gli studenti c’è un giovane
sottufficiale della Finanza.
Parla del caso di Abu Omar, delle indagini fatte contestando il principio che
l’Italia debba essere il giardino di casa degli Stati Uniti. Spiega come lui e altri
magistrati degli anni settanta fossero considerati “toghe nere” perché non
abbastanza sensibili alle garanzie dei terroristi rossi e si siano poi ritrovati
a essere “toghe rosse” perché troppo sensibili alle garanzie dei terroristi
internazionali. Ricorda il Berlusconi del 2005 che spiega che non si può mica
combattere il terrorismo con il codice in mano e riconsegna ai giovani
l’immagine di Guido Galli, anche lui senza scorta, ucciso dentro l’università,
steso nel sangue e con il codice a qualche centimetro dalla mano.

Il codice in mano. Questo è il messaggio che lascia ai giovani. Parla di altri suoi maestri, racconta sapidi episodi delle sue inchieste sulla criminalità organizzata a Milano, ‘ndrangheta, Cosa nostra o Sacra corona unita. Sbugiarda l’idea dilagante che strutturalmente la ‘ndrangheta non possa avere pentiti, lui ne ebbe a decine solo in Lombardia. Parla dei segreti di Stato con cui il potere ha cercato di fermarne le indagini. La legalità difficile si leva dalla sua autobiografia con mole e contorni inquietanti.
Quante cose si possono imparare dal racconto di una vita. Emozioni, fatti incoercibili,  affreschi di storia (impagabile il racconto della Commissione stragi e delle sue fantasie sul caso Moro). La differenza tra verità giudiziaria, verità politica e verità storica. E i dietrologi, quelli che vogliono che i fatti non turbino una “bella narrazione”. Alla fine i giovani lo circondano. Hanno incontrato un pezzo di storia mai trovato né sui libri né in tivù. Armando Spataro se ne va dopo un bicchiere di vino. Senza scorta. Può sembrare strano. Ma nell’università ormai senza più fondi, i giovani fanno ricerca anche così. Senza promesse di crediti e di premi. Ma solo per difendere meglio, a vent’anni, il proprio paese dall’incubo eterno della legalità difficile.

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