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Lucia Torre. Trentatré anni di solitudine (anticamorra)
Il Fatto Quotidiano, 15.12.13
“Guardala bene, questa sala. Lo vedi com’è piena? Ecco, i
paganesi non ci sono”. A sentirlo dire viene un brivido. Perché la sala è l’aula
magna del liceo scientifico “Mongino” di Pagani, dove si sta ricordando il
sindaco Marcello Torre ucciso dalla camorra trentatré anni fa. E perché chi lo
dice è Lucia Torre, moglie di quel sindaco. Che resiste, e chiede memoria,
anche se ha già passato idealmente la missione alla figlia Anna Maria. Tutte le
autorità, gli esponenti del movimento anticamorra, gruppi nutriti di studenti
sono riuniti per una cerimonia che profuma di civismo e di cultura. Viene
assegnato il primo premio del concorso intitolato a Torre. Che ha visto
concorrere le scuole della provincia di Salerno. Ma a cui non ha partecipato
alcuna scuola di Pagani, nemmeno quella che ospita l’incontro, che pure fu voluta
proprio dal sindaco ucciso quand’era vicepresidente della provincia. Lucia è
donna colta, elegante, tenace. Il tempo che le ha fatto superare i settanta non
ne ha piegato né la fierezza né la capacità di ricordare.
Ha visto di tutto in questo terzo di secolo. Il marito battersi contro la
camorra vogliosa di mettere le mani sul “bottino” della ricostruzione
dell’Irpinia. E il suo assassinio sotto casa, il classico “colpirne uno per
educarne cento”. Dopo di allora i clan ebbero via libera, e si fecero potere
economico senza misura. Mentre lei, devastata dal trauma, perse anche il terzo
figlio in arrivo. Ha visto il silenzio
codardo di chi a ogni anniversario le comunicava che avrebbe portato “i fiori a
Marcello”, ma preferiva non farsi vedere alle pubbliche manifestazioni, “perché
queste cose si vivono intimamente”. Ha visto il silenzio complice di chi mal
sopportava l’ombra di quell’amministratore onesto, di cui era meglio
dimenticare l’esempio e anche il sangue. Ha visto perfino una piazza intitolata
a lui con tanto di pubblica cerimonia e
di passerella oratoria, con il presidente della Regione Stefano Caldoro; e poi,
esattamente il giorno dopo, ha visto ritirare quell’intitolazione, una nuova
delibera in consiglio comunale e l’immediata rimozione della targa. Una beffa da
nessuno mai subita nella storia d’Italia.
A metà mattinata la rincuora il tema vincitore. L’ha scritto Melania, che viene
dall’Istituto tecnico “Guido Dorso” di Sarno. E che a 17 anni si rifiuta di
credere di avere nel proprio dna, come un sussurro ambientale si sforza di
insegnarle, una quota di corruzione. Si ribella a questa idea, Melania. Scrive
che lei non si arruola nella categoria degli esseri “geneticamente modificati”.
Un’altra immagine possibile di Campania prende la sua voce. Lucia ha un gesto
impercettibile di commozione.
E sente come un risarcimento, altro che “quella farsa della piazza”, il fatto
che al termine dell’assemblea le autorità, gli amici e i parenti si
trasferiscano nell’aula del consiglio comunale, dal cui ingresso si può
ammirare tutto il degrado edilizio che camorra e corruzione producono dove
governano gemelle. Non per i panni stesi, non per l’affollamento dei palazzi, ma
per quel volto di cartongesso fatiscente che parla più di un trattato. Scritte
sui muri ovunque: d’amore (adolescenziale) e di odio (Nocera colera, Odio
Nocera). Non è davvero strano che in un
terzo di secolo quell’aula consiliare -senza nemmeno una panca per il pubblico-
non sia stata intitolata al sindaco caduto per impedire lo scempio. Altrove dopo pochi
mesi avrebbe preso il suo nome. Qui no. Qui ci ha dovuto pensare la commissaria
di governo Gabriella Tramonti, insediata al posto del sindaco indagato. Una
targa, che nessuno rimuoverà stavolta, viene affissa all’ingresso. Cerimonia
sobria, silenziosa. “Che cosa provo? Vedi, quando ti succedono certe cose vai
avanti, ma non ti riprendi più. La città non si muove per Marcello. Ma quando è
venuto Cosentino, che era pappa e ciccia con il sindaco rimosso, il cinema era
pieno, e dovevi vederli i balconi e le finestre come erano aperti. Un trionfo”.
Lucia ha la parola amara mentre gli occhi diventano da combattente intenerita.
Mostra al polso l’orologio “che mi ha regalato Marcello”, racconta delle
lettere d’amore che “ci scrivevamo quando avevo tredici anni, oggi le lettere
non si mandano, di amore bisogna saper scrivere”.
Racconta che il ricordo di cui è più orgogliosa è una multa che lui, sindaco, le aveva detto di pagare. E che conserva a casa. Durante il pranzo finale si gode la figlia e i nipoti (‘annonna, li chiama a sé, come usano le nonne del sud). “No, nessun contributo pubblico per questo anniversario. Qui ci dividiamo le spese: io, mia figlia e mio nipote Marcello. Potrei mai prendere i soldi dai ladri?”. Ecco, chi pensa che l’antimafia sia ormai terreno di conquista per soubrette e saltimbanchi, narcisisti e truffatori, venga a godersi questi bagliori di dignità. Conosca questa donna a cui toccò di mettersi contro la camorra nel 1980, quando a farlo si pagava con la solitudine più amara. E ne impari la fierezza. “Certo sarebbe più bello vivere da un’altra parte. Ma io di qui non me ne vado”.
Nando
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