“Esempi”, non “vittime”. Dirselo con un brindisi

 

Il Fatto Quotidiano, 5.1.14

Un buon anno con panettone e pandoro. Tra familiari che si
vogliono bene e si scambiano baci sulle guance. D’accordo, messa così non è una
notizia. E allora diamola in un altro modo. Foto di gruppo in un interno. Un
seminterrato in un cattolico ostello per la gioventù alla periferia di Milano.
Alcuni familiari di persone uccise dalla finanza sporca, dalla mafia, dai
narcotrafficanti. Familiari non “tra loro”. Ma di altri, di persone che non ci
sono più. Riuniti qui da una mano invisibile. Qualcuno, due giorni prima, ha
avuto l’idea che si mettessero insieme e che si scambiassero gli auguri. Sono
abituati o no a brindare a un anno migliore? Lo facciano insieme, stavolta. Si
parlino, si raccontino, servirà comunque a incominciare l’anno con più energia.
O con l’anima più leggera.
Funziona, funziona. Il cielo milanese è da malinconia spinta, un favoloso
grigio esistenziale. Ma nel seminterrato la vita prende tinte forti. Tra
lacrime e allegria. Tiene banco una signora con una lunga sciarpa ciclamino. Lo
volete sapere? Io sono orgogliosa di essere la figlia del primo magistrato
ucciso dalla mafia. Sì, orgogliosa. E’ Mariella Scaglione, figlia di Pietro, il
procuratore della Repubblica ucciso a Palermo nel 1971. Si era inimicato
Luciano Liggio, allora ai vertici di Cosa Nostra. Oggi Mariella è in pensione a
Milano, ha qui i due figli e fa la nonna. E narra di un’altra sua ragione di
orgoglio. Di quando insegnava alle superiori a Palermo e dovette difendere il
fratellino di Vincenzo Li Muli, uno dei poliziotti di scorta fatti a pezzi con
Paolo Borsellino in via D’Amelio. Anche se era una scuola sperimentale,
racconta, il ragazzo veniva emarginato dai suoi compagni di classe: “Talé, il
figlio dello sbirro”. Tanto che stava smettendo di andare a scuola. Allora un
mattino Mariella li prese di petto e disse che dovevano avere per lui lo stesso
rispetto che avevano per lei, perché tutti e due erano familiari di vittime di
mafia. Vinse, e gli occhi si illuminano al solo ricordarlo.
Vittime? Perché vittime? A me questa parola non piace. Ci dev’essere una
ragione se Francesca Ambrosoli, sempre così timida e taciturna, prende ora la
parola. Vittime è un termine brutto, spiega con la voce che le si spezza; evoca
una colpa, una situazione di inferiorità, mentre per me loro sono degli esempi,
degli eroi. Per me papà è stato un dono. Si scusa per doversene andare a mezzo
incontro, ha tre figli adolescenti che la aspettano a casa. Certo, Giorgio
Ambrosoli è un eroe, commenta un familiare accanto a me. Però la targa
intitolata a lui sul palazzo dove abitava, in via Morozzo della Rocca, l’hanno
rimossa quattro anni fa. Dava fastidio, intristiva il condominio,
l’amministratore non mi ha nemmeno ricevuto. Altro che esempio, altro che
orgoglio…Ecco perché occorre farsi forza. E perché non sono retorici gli auguri
 che si intrecciano in questo interno di
periferia. L’orgoglio lo tira fuori anche Marisa Fiorani. Sua figlia, finita
nella droga e desiderosa di uscire da quel mondo, venne uccisa dai trafficanti
della Sacra Corona Unita e sepolta in un bosco, in Puglia. La storia di Marisa
mette i brividi. Di lei sentii parlare un giorno in treno con ammirazione da
una signora sconosciuta che l’aveva ascoltata in una scuola di Busto Arsizio la
sera prima. Qui rivendica l’ orgoglio di essere la madre di Marcella, e di
dirlo ovunque le capiti. Perché per troppo tempo l’hanno fatta vergognare di
esserlo. Anche lei ha il suo aneddoto. Faceva compere al mercato portando a
spalla una borsa di Libera, allora qualcuno la chiamò: Signora Libera!. La voce
veniva da un tavolino dove raccoglievano firme. Lei si voltò: sapete che cos’è
Libera?, chiese. Sì, è quella cosa delle vittime, rispose uno. Ecco, io sono la
mamma di una vittima, replicò lei. Marcella, ripete, e il nome le attraversa il
viso come un lampo.

 

C’è anche un po’ la storia della lotta alla mafia in questi metri quadri. Fatta di servitori dello Stato, come Giuseppe Bommarito, l’appuntato che cadde nell’83 a Palermo con il giovane capitano Mario D’Aleo; c’è qui Francesca, la sorella, psichiatra. E fatta di sindacalisti coraggiosi, come Epifanio Li Puma, ucciso a Petralia Soprana nel ‘48. Il suo nome echeggia nel comizio di un immaginario Pio La Torre nel film “Placido Rizzotto”. E sempre qui c’è la nipote Grazia, maestra elementare a Gorgonzola, impegnata quest’anno a educare alla legalità i bimbi di prima. L’ha portato lei il panettone.
Ma forse è Lorenzo, un quarantenne spilungone con la barba, a spiegare meglio il senso di questo incontro singolare. Per anni e anni suo padre, Piero Sanua, non fu considerato vittima di mafia. Faceva il sindacalista nel commercio. Venne ucciso nel ‘94 a Milano, forse dai clan che giravano intorno all’Ortomercato. Su un furgone, mentre il figlio gli era accanto. Poi fu dimenticato. E’ in questi incontri, spiega Lorenzo, che ritrovo il senso di quel che è accaduto. Ricordo mio nonno ai funerali che gettò un pugno di terra sulla bara di mio padre mentre lo interravano e gli disse “Vedi Piero, uomini come te ce ne sono pochi”. Io ora so chi sono, ma queste storie bisognerebbe farle conoscere. Certo non bisogna lasciarle in un interno della periferia milanese. In fondo questo incontro di persone che raccontano a loro modo la storia d’Italia è un augurio che suona per tutti. Buon 2014.

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