Mio padre e lo scandalo di Schiavone opinionista tivù

 

Il Fatto Quotidiano, 26.1.14

“Il decreto svuotacarceri? Eh no, eh no… i problemi non si
risolvono in questo modo”. Massimiliano Noviello soffia quasi di sconforto, si
ferma, poi rivà al punto di partenza di sempre dei suoi ragionamenti. A quella
data: 16 maggio 2008. Il giorno in cui alle sette e mezzo del mattino venne
ucciso suo padre Domenico Noviello, titolare di una scuola guida a Castel
Volturno, località Baia Verde. Una storia esemplare dell’epopea dei casalesi
dominata dal clan Schiavone. L’imprenditore si portava addosso una colpa
imperdonabile. Nel 2001 aveva denunciato e fatto arrestare i suoi estorsori,
uomini del clan di Francesco Bidognetti. Con lui altri imprenditori e commercianti
avevano trovato il coraggio di ribellarsi ai casalesi. E a loro si erano
aggiunti alcuni collaboratori di giustizia. Da qui la vendetta sanguinaria. Una
strage di testimoni e di parenti. Che doveva, una volta di più, imporre sul
casertano la legge del terrore. Da allora molto è cambiato. Il clan dei
casalesi è stato decimato: arresti, condanne, fughe disonorevoli per botole e
fogne. Eppure è rispuntato agli onori della cronaca. Grazie alla televisione.
Finita la legge del terrore, è arrivata quella dell’audience. E intanto si
annunciano scarcerazioni a raffica.
Massimiliano oggi lavora come impiegato presso un imprenditore del recupero
imballaggi che ha sentito il dovere di aiutarlo. E assiste con sconcerto ai
trionfi mediatici di Carmine Schiavone. Ripensa a suo padre, morto di dignità a
65 anni, nessuna scorta e solo una vigilanza saltuaria fino al 2005. E vede l’ex
capo camorrista, cugino di Francesco Schiavone, il celebre “Sandokan”, accolto
con ogni onore nelle trasmissioni di punta. Lo vede sentenziare come un oracolo,
libero di gettare la sua arroganza residua sulle proprie vittime di un tempo,
che ora pagano i veleni conficcati a tonnellate in una delle terre più fertili
del Mediterraneo. “Fa l’opinionista, adesso. E fra l’altro, come giustamente
hanno detto fior di magistrati, parla di rifiuti ma non ne ha alcuna
competenza, si può pure confondere. Intendiamoci, io non ho nulla contro di
lui, non lo conosco e non ci tengo a conoscerlo. Ma sono amareggiato. Trovo
vergognoso che ne facciano un personaggio, quando poi probabilmente cavalca
l’onda aspettando solo ulteriori benefici. Non si tiene più il conto delle sue
apparizioni. Ha preso una somma gigantesca dallo Stato ed è sempre lì ad
attaccarlo. Io credo che non si debba dare la parola a chi ha fatto tanto male,
a chi ha fatto soffrire tante persone. E’ insopportabile vedere il pentito che
presenzia e apre bocca con persone che hanno perso i figli per colpa sua e dei
suoi compari. Lo dico avendo vissuto in diretta certe cose. Un poliziotto della
mia scorta ha avuto anche lui un figlio morto di tumore a nove anni. L’ho visto
che cosa si passa. I viaggi disperati in America, la sofferenza e la rabbia
degli umili, dei lavoratori. Perché invece di ospitare lui non fanno un po’ di
inchieste su chi ha mosso quel business infernale o non danno più spazio ai
testimoni di giustizia?”.
In effetti accadono cose da pazzi. Di là Totò Riina al 41 bis che invece di
essere tagliato fuori dal mondo vi piomba con pubblici discorsi come mai aveva
potuto da libero. Di qua un pugno di collaboratori che invece di chiedere
(giustamente) di essere protetti pretendono di diventare coscienza critica del
paese. Domenico ricorda i funerali di suo padre, la solitudine che si tagliava
a fette in quel pomeriggio di maggio. Sindaco, questore, prefetto, pochi
imprenditori e commercianti, e nessun politico. E fa il confronto con i
riflettori mediatici riservati a chi uccise cinquanta persone, e quattrocento
ne fece uccidere, secondo la sua stessa contabilità di macellaio.

 

“E’ incredibile. Con il 41 bis hanno messo insieme i capimafia, ne hanno fatto una holding che tiene nell’ora d’aria i suoi consigli di amministrazione. E poi la decisione di svuotare la carceri perché sono sovraffollate. Ma perché non ne costruiscono di nuove? Se no si insegna ai criminali che i loro delitti non pagano mai le pene previste dalla legge. Uno prende trent’anni e in carcere ne fa dieci, più cinque ai domiciliari. E noi qui a trasformarci in esseri speciali solo per avere fatto il nostro dovere di denunciare un reato. Mio padre ora è una medaglia d’oro al valor civile, io vivo con la tutela e il porto d’armi, e mia madre che non è più capace di un sorriso, al massimo ci riesce per il compleanno di un nipotino. Io quando vedo queste cose, mi sento sconfitto anche come cittadino. E non perché creda che un ergastolo mi ridia mio padre. Il fatto è un altro. Vede, c’è una cosa a cui non si pensa mai. Loro uccidono certe persone per dare un messaggio, a scopo dimostrativo. Ecco, soprattutto davanti a questi delitti, lo Stato non deve mollare, se no dà una risposta dimostrativa nel senso opposto. Io sono nato a Casal di Principe e sono cresciuto vedendo i vigili urbani derisi e sbeffeggiati. Sono dovuto andare a fare il militare in Friuli per scoprire che cosa fossero le regole. Ecco, le regole: ma lo Stato sarà mai capace di dimostrare che esistono regole certe ovunque e per tutti? Oppure, dopo tutto questo sangue, rivedremo i boss in giro, e dovremo constatare che legge si fa garante supremo non dei nostri diritti ma di chi ha commesso i reati?”

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