I fiori dell’oleandro e la gabbia di matti. E il re di Gianfelice

 

San Valentino. Come la notte (con strage) di san Valentino nella Chicago del ‘29. Come la prima grande operazione contro la mafia dei colletti bianchi a Milano nel 1983. Come, se Dio vuole, la festa degli innamorati. Esce oggi in libreria “I fiori dell’oleandro” (sottotitolo: “Donne che fanno più bella l’Italia”), per i preziosi tipi di Melampo. Copertina splendida, invenzione della Biondina. E’ una selezione delle figure femminili raccontate sul “Fatto” nei miei cinque e più anni di “Storie italiane”. L’immagine dei fiori dell’oleandro si spiega in un attimo. Avete mai visto lo splendore di colori, mai sentito il profumo di un oleandro? Ecco, andateci vicini e vedrete che la maggioranza dei fiori sono rinsecchiti, esausti. E’ esattamente la minoranza dei fiori che dà quel bellissimo colore al paesaggio, profumandolo così intensamente. Ecco, sono le minoranze belle a fare bello un paese. Perché ho scelto le donne? Qui volete sapere troppo. Leggete, ché merita.
Storie grandi, dalla Romana che ha lottato contro l’amianto assassino di Casal Monferrato alla Ninetta di Niscemi, che si batté per anni per sapere dove avessero sepolto il suo ragazzo, dalle avvocatesse delle cause perse (che però loro vincono) ad alcune mie allieve in lotta contro il precariato o impegnate nei più arditi progetti di volontariato. Storie spesso umili, aspre o dolci, sempre belle e piene di dignità. Una prof che stimo molto mi ha detto che è stata sbagliata l’uscita il giorno di San Valentino, poiché il libro è da 8 marzo. Assicuro che è stata una coincidenza. Mi ha fatto piacere ma è stata una coincidenza. E infatti la Camera del Lavoro di Milano lo vuole presentare proprio in vista dell’8 marzo.
Ne sono solo fiero, mentre preparo anche la presentazione del “Manifesto dell’Antimafia” (Einaudi, elegantissimo) per la giornata nazionale della memoria e dell’impegno di Libera, il 22 marzo. Ma sui due libri tornerò. Tutti e due rappresentano comunque un tentativo di uscire dal luogo in cui siamo finiti e che ieri è stato descritto con tanta efficacia da Romano Prodi: “siamo rinchiusi in una gabbia di matti e hanno buttato via la chiave”. Romano, ah Romano… Ora pare che in Rai tutti dicano “Matteo”, “ho visto Matteo”, “mi ha detto Matteo”, proprio come dicevano “ho parlato con Romano”… Ecco, sappiate che chi parla così in genere ha visto una volta a stento il potente di cui racconta. Criterio infallibile.
In una gabbia di matti sembra vivere anche il re di “C’era una volta un re” di Gianfelice Facchetti, originale pièce in programma al teatro Leonardo a Milano. Critica del potere, invenzioni linguistiche, intuizioni e sorprese, specie nel finale, che solo un giovane autore-regista può immaginare. Piccole questioni di ritmo che mi dicono già risolte dopo l’esordio. In ogni caso sapore di fresco, sapore di sperimentazione. E non credo di essere condizionato dalla stima che ho per l’onestà intellettuale e lo spirito di libertà di Gianfelice. Lo guardo e non penso quasi più che è il figlio del leggendario Giacinto. Però, amici, buon sangue non mente.

 

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