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Heba, puro sangue d’Arabia in cuore italiano
Il Fatto Quotidiano, 23.2.14
Gli occhi grandi che nei momenti
del ricordo si fanno fessura. Le labbra serrate che nei momenti di confidenza
si fanno sorriso di primavera. Heba racconta la sua storia. Quella di una
giovane diventata italiana pochi giorni fa: ventinove anni dopo l’arrivo in
Italia. Ne aveva due quando lasciò la nonna materna e partì dal Cairo per
ricongiungersi a padre e madre, a loro volta ritrovatisi a Milano dopo che il
capofamiglia era venuto a lavorarci come facchino in un circo. Fece tutte le
scuole nel suo nuovo paese, “sempre come unica bambina di origine straniera”.
La materna, le elementari, le medie. E le superiori. “E questa è una storia
curiosa. Perché io avrei voluto fare il liceo classico, ma la professoressa di
italiano lo sconsigliò. Avrei avuto bisogno, diceva di lezioni private, sarebbe
costato troppo. Ai figli di immigrati si consiglia sempre di iscriversi agli
istituti professionali per andare subito a lavorare. Così andai a un istituto
tecnico linguistico sperimentale, il ‘Pasolini’. Ho ancora un po’ di rancore
per quella storia”. Ride. E’ rancore dolce come l’espressione, che fa tutt’uno
con quel suo velo ciclamino, con quell’abbigliamento a strati, nero, azzurro, e
ciclamino ancora.
“Dopo la laurea triennale mi trovai senza più il permesso di soggiorno per
ragioni di studio. Fu a quel punto, a 23 anni, che presi coscienza della mia
precarietà. Non bastava essere figlia di persone che vivevano in Italia da
decenni, né avere fatto qui tutte le scuole, per avere il diritto di restarci. Mi
diedero un permesso speciale, sei mesi per chi è in attesa di occupazione. Si
può dare una volta sola. Poi il rimpatrio. Mio padre ebbe allora l’idea di
farmi aprire una partita Iva e di farmi lavorare con mio zio, commerciante. Una
scelta troppo costosa. Davo ripetizioni e facevo lavoretti solo per pagarmi le
tasse. Occorreva un lavoro fisso. Mi salvai con un contratto part-time a tempo
indeterminato al comitato inquilini del Calvairate, sì, quello animato da
Franca Caffa, dove già facevo volontariato e avevo conosciuto Davide, mio
marito. Insegnavo italiano agli immigrati adulti, accompagnavo all’assistenza
socio-sanitaria, facevo mediazione culturale, la mia laurea. Ebbi così la carta
di soggiorno, che permette di restare e di viaggiare. E nel 2007 potei fare
domanda di cittadinanza. Mio padre la ebbe nel 2009, al terzo tentativo. Io
l’ho avuta pochi giorni fa, dopo sette anni”. Ora finalmente Heba Alla Ibrahim
è cittadina italiana. Anche se ha perso il lavoro, perché il comitato non
riceve più fondi privati né aiuti dal Comune e lei se la cava con ripetizioni
private e lezioni di arabo. “Mi ha portato una lettera il messo comunale, diceva
che la mia domanda di cittadinanza era stata accettata. Sono andata in
municipio a giurare fedeltà alla Costituzione e dopo quattro giorni ho avuto la
carta di identità con il mio nome”.
La carta, le carte. E’ incredibile il loro peso (“un incubo”) nella vita di
Heba. Lei ne scherza con l’ironia affinata per difendersi dal nostro razzismo
strisciante ma anche da quello dei corregionali di seconda generazione. Per
proteggersi dalla retorica compassionevole della “povera immigrata” o da quella
ammirata per l’ “immigrata che fa volontariato”: “neanche quella mi piace,
perché io non sono un’estranea nella vita di ogni giorno”.
Per questo quando ha avuto la notizia tanto attesa ha diffuso un messaggio agli amici, che un’anima sensibile mi ha girato. Un concentrato di gioia, di ironia e di amarezza: “Domani mattina finalmente, davanti a un funzionario del comune di Milano, nonostante il mio velo africano, la mia faccia da indiana-calabrese e un marito che da lontano potrebbe sembrare addirittura un po’ talebano, giurerò di essere italiana, italianissima, un puro sangue d’Arabia. Verrò cioè ‘naturalizzata’ e […] quindi, ad esempio, come tutti gli italiani potrò vivere serenamente la mia disoccupazione, senza il timore di non vedermi rinnovato un pezzo di carta dal quale dipende la mia vita in Italia; oppure potrò migrare in un altro paese ancora, senza la paura di non riuscire a tornare nel posto in cui più ho vissuto, qui. […] Avrei tanto piacere a condividere con voi un momento così.., una quasi libertà. Non vorrei però fosse una festa…no. Non finché continueranno a esserci morti in mare, o ai confini di qualunque parte del mondo, dietro muri, o durante viaggi non più umani di persone ridotte come non vengono quasi più ridotte le bestie. Ecco, mi piacerebbe vedervi, voi che in tempi diversi e modi tutti unici e meravigliosi avete costruito ognuno un pezzo della mia cittadinanza. E cos’è la mia cittadinanza? Il mio paese? La mia casa? Sono le persone. Le relazioni. Voi”.
Le manca l’Egitto, Heba? “Strano, non ci ho vissuto eppure ne ho nostalgia. Della lingua, del paesaggio, del vissuto; quando torno capisco che mi perdo qualcosa, cambiano le parole e le abitudini, e io mi riscopro sempre ferma a quelle della volta prima. Che cosa mi piace più dell’Italia? Guardi, a volte immagino la mia vita capovolta. E mi domando se avrei fatto per un italiano in Egitto quel che ho visto fare da tanti italiani per me. Se tante persone si sarebbero interessate di lui, come è accaduto a me. Ecco, è questo il bello dell’Italia, quel che mi piace di più. Non trova?”.
Nando
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