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Filippo, il tassista che dà lezioni di economia
Il Fatto Quotidiano, 2.3.14
Dalla piccola folla in attesa sbuca lui. Napoli Capodichino,
tardo pomeriggio buio pioggia. Filippo ha il fare amichevole e spigliato di chi
sta dalla tua stessa parte. Lo guardi di straforo: abbastanza alto, snello,
atletico, capelli rasi e barba a filo. All’incirca sui trentacinque. Avvii la
conversazione usando le parole che creano (o svelano) l’intesa tra due
sconosciuti. Dopo pochi minuti la sorpresa. Arrivati al posteggio, fa segno di
sederti dietro. E’ il tassista. Ma è solo una questione di ruoli. Perché poi
durante il viaggio questo giovane in
giubbotto tiene quasi una lezione sul sud e sulla sua generazione, con
suggestive ricette anticrisi, di quelle da zero in economia e dieci in buon
senso.
“No, dottore, non ho vissuto sempre qui. Sono stato al nord, ho vissuto a Pavia
più di dieci anni. Prima fuori città poi vicino alla stazione, così la mia
compagna che è laureata in scienze dell’educazione e faceva l’insegnante di
sostegno in una scuola di Milano poteva andare avanti e indietro con meno
fatica. I ricordi più forti di quegli anni? La nebbia e le zanzare. Ho fatto di
tutto, a Pavia. Il meccanico alla Ponte Dalmine, poi ho lavorato in officina,
poi in un salumificio. Nei week end arrotondavo di sera in una pizzeria. Sono
partito per il nord a 18 anni, e vivere da solo è stata un’esperienza
importantissima; pensi che prima non
sapevo nemmeno farmi un piatto di pasta. Capisce? Io campano… Poi sono tornato
qui, si sta meglio. Per farsi una famiglia soprattutto”.
“Vede, al sud la crisi colpisce di meno, picchia più al nord. Noi siamo
abituati alla precarietà, lì invece la gente era abituata al salario fisso, a
lavorare sempre nello stesso posto, mentre noi abbiamo sempre cambiato i
lavori. La provvisorietà ce l’abbiamo nel sangue. Senza contare il costo della
vita, che al nord fa la differenza. Mia moglie avrebbe dovuto lavorare solo per
pagare la baby-sitter, non avevamo dietro nessuno, nemmeno un parente. Ora
invece c’è la famiglia e abbiamo la casa di proprietà, così uno già si toglie l’affitto”.
“C’è un abuso assurdo del lavoro interinale. Se lo ricorda, dottore? Era stato
immaginato per avere più operai a disposizione quando c’è un emergenza, quando
occorrono più lavoratori per Natale, per un mese, per l’estate. E invece è nata
un’epoca nuova, ma uno, dico io, non può fare l’interinale di mestiere. Te lo
fanno fare anche per cinque anni, licenziandoti e riassumendoti in
continuazione. Mancano del tutto i controlli e tante imprese truffano; si
dichiarano artigiane, con meno di quindici dipendenti. Loro ci guadagnano
mentre il lavoratore è sempre appeso a un filo. E a me non piace. Le dirò di
più: io non voglio fare nemmeno il lavoratore stagionale, che qua è una figura
molto diffusa. Ho un amico che fa il cuoco e si vanta: sei mesi lavoro e per
gli altri sei non mi alzo dal letto e mi paga lo Stato. Ecco, a me non sta
bene. Sa che cosa proporrei se governassi? Che negli altri sei mesi io,
stagionale al sud, vado a lavorare al nord e lo Stato mi dà 500 euro al mese in
più rispetto a quel che mette l’azienda; così io riesco a pagarmi l’affitto, lo
Stato risparmia il sussidio di disoccupazione e in più io ci pago le tasse e i
contributi”. Filippo fa una pausa. Forse con la sua ricetta si è sbilanciato
troppo. Un economista storcerebbe la bocca, ma intuisci che qualcosa di buono
nel suo ragionamento c’è. Poi spiega: “Che cosa è più desiderabile nella vita?
Un lavoro onesto. Onesto, ripeto (e capisci che qualcosa in comune con i tuoi
ospiti anticamorra deve averlo…). Sono tornato qui anche per mia figlia, e mi
sono guardato subito in giro. Che dovevo fare? Ho imparato a fare il pane e
sono diventato panettiere. Poi si è liberata la licenza per il taxi ed eccomi
qua. Certo non si diventa ricchi. Anzi, mi domando ogni giorno come potrei fare
un mutuo. Devi avere paura anche a comprarti un mobile. Fanno la bella vita, lo
ha notato?, solo le imprese che sfruttano il lavoro interinale o che non pagano
le tasse. Ma le chiedo una cosa, dottore: come fa un imprenditore a guadagnare 10mila
euro o a risultare in rosso mentre il suo dipendente ne guadagna 20mila?”
Filippo scalda leggermente i toni. “Se c’è posto per il mestiere di mia moglie? No, non ce n’è”. Di lontano si intravede una costiera, luci in larga fila accanto al mare. Il mio compagno di viaggio conferma il consenso di cui gode un sindaco assai noto. “E’ Salerno. Vede, Salerno è un’altra cosa rispetto a Napoli. Non voglio far politica, mi capisca bene. Ma De Luca, il sindaco, lo incriminano, lo accusano di conflitto di interessi. Però il fatto è che ci andava lui direttamente di notte a vedere i lavori in corso, a controllare dove cresceva la prostituzione, Salerno è una città pulita. A Napoli invece chissà quanti operatori ecologici ci sono ma per le strade non c’è nessuno, non riescono a farli lavorare. No, non sono di Salerno; sono di Maiori, costiera amalfitana, dove comandano in pochi”. Arriviamo a destinazione. Filippo è molto benvoluto dai miei ospiti. Ma non si ferma per la serata. Il suo taxi multiplo si reimmette nella notte salernitana. La lezione di questione meridionale e di economia reale è finita. E suona così: casa più famiglia più paesaggio sono meglio della nebbia, del lavoro interinale e dello stipendio per pagare la baby-sitter. E’ l’Italia ai tempi della crisi.
Nando
Next ArticleLa Grande Bellezza (e la grande vergogna). E buone mimose a tutte!