Vi racconto Belgrado. La città che canta la vita dopo le bombe

Tornato ieri sera da Belgrado, viaggio regalo per
tutta la dalla Chiesa- band (biondina, gracchi e anfitrione) da parte del
Gracco maggiore, che si era avventurato nella splendida e generosa promessa
davanti all’albero di Natale. Date le sue passioni ostellanti, ci ha portato in
un ostello. Che sorgeva dentro una specie di Scampia degradata, come piccolo
fiore senza mezzi ma con molta poesia e molto spirito di ospitalità.
Belgrado è
città da conoscere. E mi pento di arrivare tanto in ritardo. E’ una città
ferita, ancora profondamente ferita. Segni ovunque della guerra, palazzi
sventrati, sfregi alle architetture. Altro che “obiettivi esclusivamente
militari”. Sfregi nelle memorie, soprattutto. Di gente che ha nella mente una
propria geografia della paura e delle distruzioni, di giovani che ricordano
quando a cinque anni venivano lasciati dalla nonna a tenere il posto in file
infinite per il pane. Ascoltando i racconti mi sono sentito, massì, orgoglioso
della scelta fatta come deputato di un paese che aveva pomposamente approvato e
sostenuto quei bombardamenti Nato: lo sciopero della fame per nove giorni, a
turno con alcuni colleghi pacifisti, anche se non servì a niente.
Ma proprio le sofferenze patite sembrano dare alla Belgrado di oggi una
vitalità meravigliosa. Città povera, con pochi ristoranti, che la gente non si
può permettere, dovendosi accontentare per la sera del week end di caffè, birre
o gelati. Ma città piena di giovani che la percorrono tutto il giorno, con i
visi sorridenti, e la fanno vivere fino a ore tarde. Non si vedono malmostosi o
rancorosi, nessuna “brutta faccia” come ha notato il Gracco maggiore. Passeggi
oceanici senza una cartaccia per terra. Pochissimi cani di razza, nessuna (o
quasi) forma di accattonaggio, i venditori di fiori chiedono e se ne vanno
subito senza attaccarsi per cinque minuti a chi abbia l’idea di sostare in un
posto a chiacchierare.
Stupisce la capacità di divertirsi, sincera, genuina, di
incontrare il mondo. E qualcosa vorrà dire se ci sono quasi cento ostelli,
contro i tre o quattro di Milano. Siamo capitati in un ristorante (costo: un
terzo che in Italia) dov’era in corso una festa di matrimonio con musica e canti,
e in un altro siamo andati la sera dopo mentre impazzava la festa delle donne
(non mimose ma un fiore qualunque). Sono rimasto affascinato e contagiato dalla
spontaneità dell’allegria. Canzoni in omaggio per gli ospiti italiani: “Marina”
di Marino Marini, che cantavano anche in serbo, e quella di Toto Cotugno sull’ “italiano
vero”.
Insomma, tra il Danubio maestoso, le bellezze antiche e i nuovi architetti, la
suggestione di questo intreccio di decadenza e di esplosione di vitalità, il
basso costo di tutto, qui prevedo, copiando il Gracco che se ne intende, che
tra dieci anni Belgrado sarà una nuova Berlino. Con il vantaggio, per chi ci
verrà, di non trovare i turisti in pantofole. Pochi ancora capiscono l’inglese,
e il cirillico tiene a distanza, forse troppo. Nota: il museo di Tito si chiama
curiosamente “museo di storia jugoslava”. Fine del diario di bordo.

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