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Nilo Manni. La forza del distintivo
Il Fatto Quotidiano, 16.3.14
Impiegato di banca. Cinquantenne con pancetta. Famiglia
tipo, moglie e due figli. Vita in condominio, padre e madre sullo stesso
pianerottolo. Piacenza, tranquilla provincia di nebbie e di zanzare. Uniche
irregolarità: un fratello attore e uno zio partigiano. Davvero da questa
figurina può schizzar fuori un personaggio da raccontare, capace di smuoverti
qualcosa di misterioso dentro? Sui due piedi no. Ma conoscendolo sì. E Nilo
Manni è un tipo da conoscere. Partendo da un distintivo che porta sulla giacca
e a cui non rinuncerebbe per niente al mondo: quello dell’associazione
carabinieri. Nilo è carabiniere figlio d’arte, infatti. Il padre ha portato gli
alamari per quarant’anni. Appuntato. Un omone gentile che ancora oggi mette soggezione.
Nilo invece è rimasto nell’Arma poco tempo. Ha preferito un impiego in banca.
Anche se la vocazione del carabiniere gli è rimasta cucita sulla pelle. Per
questo si dà da fare per l’associazione. E per questo, soprattutto, è come se
si sentisse in servizio nella vita di ogni giorno. Gran personaggio, Nilo.
Vorrebbe raddrizzare a colpi di legalità e di etica un paese che vede invaso dalle
indecenze. Se gli parli, fioccano i suoi infiniti “come è possibile?”. Come è possibile che un capo del governo
rappresenti così le istituzioni, come è possibile che un ministro della
Repubblica disprezzi la sua bandiera, come è possibile che un magistrato
frequenti un pregiudicato, come è possibile che un commissario sbeffeggi quelli
che rischiano la pelle contro la mafia, come è possibile che uno con quel
curriculum giudiziario se ne stia in parlamento… Non ci si raccapezza, non ci
crede e non si rassegna. Pensa alla moglie, ai figli, ai genitori, premuroso
come prescrive la figurina.
Ma poi cerca di essere utile in qualche modo alla causa che ha sposato. Così
non c’è dibattito sulla legalità a Piacenza, o a Lodi o a Parma o se può anche a Milano, in cui non
compaia il distintivo di Nilo. Lui arriva attento, competente, partecipe. E
informato. L’ultimo libro, le cose ascoltate con scandalo la sera prima in
televisione (“ma come è possibile?…”). Alla fine va a solidarizzare, a
stringere la mano a chi lo merita, si tratti del giudice coraggioso o del
familiare di vittima o del giornalista impegnato sulla questione morale. Sa che
è importante incoraggiare e lo fa, lo sente come un dovere civico. “Nessuno
deve essere lasciato solo” è il suo motto. E che nessuno pensi di ingannarlo,
perché l’uomo ha davvero il fiuto del segugio. Non lo incantano i vanesi
vestiti da antimafiosi o gli autori, anche prestigiosi, dei libri-bufale sul
caso Moro o sui “veri burattinai” della mafia. In quei casi si disgusta e cerca
subito rifugio tra gli amici carabinieri e poliziotti, quelli come si deve, in
servizio o in congedo. E con loro parla e si scambia le notizie. Chi opera in
quel reparto, chi sta arrivando con questi cambi di vertice, se è bravo e leale
o un lazzarone con protezioni politiche. Qual è vera la situazione della
criminalità, che cosa accade sul territorio. Segue la ragnatela dei clan,
traccia come un analista esperto gli intrecci dei nomi. Li sa tutti. Chissà che
non se li trovi sulla sua strada da impiegato di banca che per legge deve
vigilare sulle origini del denaro facile.
Perché questo signore pacioso e che non dà mai confidenza gratis, ha una
particolarità che lo rende amabile a chi lo conosca. Che in un mondo solcato da
P2, P3 e P4, sembra far parte di un’ umile ma tenace rete dei buoni. Di persone
che stanno dalla parte giusta, di cui ci si può fidare, da metterci la mano sul
fuoco. Che cosa lo rende più felice? Semplice, potere dare un giudizio positivo
o ammirato su qualcuno che indossi una divisa , soprattutto se alto in grado.
Allora sente su di sé tutto l’orgoglio di una divisa che in fondo ha portato
solo per poco tempo e del suo eterno distintivo. Gioisce e continua a tessere
quella sua rete immaginaria, seguendo le strade dei buoni: dove sono
trasferiti, che indagini fanno, chi hanno incontrato che li ha umiliati od
ostacolati. Talora reputa che l’ospite giunto a Piacenza possa correre qualche
rischio, e allora discretamente lo accompagna.
Come un bravo carabiniere in servizio, appunto. Un giorno gli ho chiesto perché, visti la passione per l’Arma e la vocazione a indagare e a difendere la legge, abbia lasciato il servizio da ragazzo. “Perché hanno ucciso il generale dalla Chiesa” mi ha risposto. Dopo qualche secondo di stupore gli ho chiesto se proprio quel delitto non avrebbe dovuto spingerlo di più a continuare. “Quell’estate”, mi ha risposto, “le nostre radio continuavano a lanciare interpellanze cercando carabinieri disponibili ad andare alla legione di Palermo. Il mio maresciallo mi disse: ‘tu sei giovane ma sei bravo, prova a fare domanda, dovresti andarci’. Ma io pensavo che difficilmente mi avrebbero preso, mi avrebbero mandato al battaglione mobile a fare ordine pubblico. Qualche settimana e uccisero il nostro generale. Poco dopo, una sera, mi mandarono a Modena a proteggere il capo del governo che l’aveva lasciato solo, Giovanni Spadolini. E mi sembrò incredibile, io lì, io che volevo andare in Sicilia ad aiutare il generale. Poi mi toccò di dovere proteggere un parlamentare di queste parti che aveva una pessima fama. E allora ho pensato che se il mio lavoro era quello, non lo facevo più”. Nilo Manni si guarda il distintivo. Ma dall’Arma, sembra dire, non sono mai uscito. E quel lavoro non lo faccio più.
Nando
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