Andava a piedi….Valerio, pellegrino per Lea

 

Il Fatto Quotidiano, 18.5.14

A quest’ora sarà già in viaggio con i suoi dieci chili di
zaino. O forse sarà ancora lì fermo, in raccoglimento, sul luogo da cui tutto è
partito. Fatto sta che questo sessantenne che conosce il sogno e la malinconia
inizia oggi uno dei pellegrinaggi più commoventi di questi tempi sgangherati. Valerio
D’Ippolito è un funzionario in pensione della Croce Rossa, che per vent’anni ha
fatto il sindacalista della funzione pubblica e che ha fissato per oggi,
domenica 18 maggio, il giorno della partenza a piedi dalla sua terra, la
Brianza. Anzi, da un punto preciso della Brianza: San Fruttuoso, vicino Monza.
Qui una notte di novembre del 2009 venne dato alle fiamme il corpo senza vita
di Lea Garofalo, la giovane donna calabrese che ebbe il coraggio di farsi
testimone di giustizia e di denunciare il compagno Carlo Cosco e i suoi
fratelli, narcotrafficanti a Milano. Una storia ben nota ai lettori del Fatto: Lea che esce dal programma di
protezione, il piano di vendetta del compagno, Lea attratta in un tranello, Lea
strangolata nel cuore della metropoli e bruciata nella campagna brianzola, la
ribellione e il coraggio della figlia Denise che riesce a ottenere la condanna
del padre e di altri membri della cosca, i solenni funerali dei poveri resti
quattro anni dopo a Milano con il sindaco Pisapia e don Ciotti che portano la
sua bara sulle spalle.
Ecco, è questa storia terribile che ha smosso testa e cuore di Valerio. “Vuoi
sapere quando è nata questa decisione di andarmene a piedi da San Fruttuoso a
Petilia Policastro, il paese nativo di Lea? Forse un momento c’è. Vedi, io ho
partecipato alle udienze del processo d’appello, quello in cui si davano
appuntamento le studentesse e gli studenti che non volevano lasciare sola
Denise. Un giorno venne interrogato Carmine Venturino, il ragazzo accusato di
avere partecipato all’eliminazione del corpo e che aveva poi scelto di
collaborare con la giustizia. Il racconto sconvolgente di quel delitto usciva
dalla sua bocca in dialetto, nella mia lingua, sì, perché anch’io sono
calabrese, sono nato a Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza. Allora mi è
esploso qualcosa dentro. Che mi si è chiarito qualche mese dopo, il giorno dei
funerali. Quando seppi che da Petilia Policastro, dalla terra di Lea, non era
venuto nessuno se non il sindaco. Era stato prenotato un pullman, ma era
rimasto letteralmente vuoto, lì a Petilia. Vuoto, capisci? Rivedevo mentalmente
il film di quella donna disperata che sfidava i clan e la sua stessa storia mentre
la Lombardia e la Calabria dormivano e nulla volevano saperne. Trasformata in
cenere a qualche chilometro da casa mia a Carate Brianza, negli stessi luoghi
del mio impegno in Libera contro la mafia.
Allora ho sentito una rabbia immensa. Perché io sono vissuto in Calabria con i
miei fino a ventidue anni: e ricordo un’altra terra. Ne conosco i difetti, la
propensione a chiedere favori personali, ma ne conosco anche l’umanità, la
generosità. Vuoi saperlo? Io parto perché… (pausa, qui la voce di Valerio si
incrina; ndr) non sopporto più di incontrare l’idea di Calabria che c’è in giro
per colpa della mafia. In certe circostanze provo vergogna e voglio capire se
la provo solo io”.
Un pellegrinaggio silenzioso per denunciare, ma anche un viaggio per riconciliarsi
con se stesso. “Ho preparato lo zaino. E’ un giorno che ci lavoro. Non più di
dieci chili. Sacco a pelo, materassino, giacca a vento, canottiere, creme per i
piedi e contro il sole, sandali speciali. Bisogna essere leggeri ma avere tutto
il necessario. Saremo in due. Con me verrà il mio amico Valentino Marchiori,
compagno di escursioni in montagna. Quando gliel’ho chiesto non mi ha nemmeno fatto
finire di parlare. Vengo anch’io, mi ha detto. Faremo tutta la via Francigena fino
a Solopaca. Poi per procedere verso sud ci siamo fatti il nostro itinerario:
niente mare, tutto nell’interno, ci faremo un bagno se troveremo un lago.
Castrovillari, Lagonegro, Luzzi, Lorica, San Giovanni in Fiore in Sila grande,
Petilia Policastro, anzi Pagliarelle, la frazione nella Sila piccola di cui Lea
era originaria. Finora abbiamo speso 1500 euro a testa per l’attrezzatura, è
tutto materiale tecnico. Certo, se scendendo verso sud potessimo avere qualche
ospitalità sarebbe un bell’aiuto. Ci basterebbe niente. Un tavolaccio in una
parrocchia o nella sede di un’associazione per metterci sopra il materassino.”

 

“Quando pensiamo di arrivare? Noi abbiamo calcolato tra il 15 e il 20 luglio. Una volta giunti a Petilia Policastro cercheremo il monumento a Lea Garofalo inaugurato da don Ciotti e lì depositeremo un mazzo di fiori. Dopodiché mi piacerebbe andare a vedere la sua casa natale a Pagliarelle. E lì scattare le foto della gratitudine per metterle su www.youposition.it, su cui cercheremo di tenere pure un diario di bordo”.
Ci penso. Dal 18 maggio al 20 luglio, a piedi. Nel frattempo l’Italia terrà il fiato sospeso per i mondiali di calcio e forse anche per i suoi destini politici. Eppure questo pellegrinaggio silenzioso di un calabrese alla ricerca della sua terra, con un mazzo di fiori come epilogo, ha in sé qualcosa di più grande. Ha il profumo della storia.

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