Michela, quando la Calabria giovane si ribella alle mummie

Il Fatto Quotidiano, 10.8.14

Hanno voglia i tromboni calabresi. Non riusciranno a
impedire che la loro terra, puff, si liberi dei don Abbondio e degli
Azzeccagarbugli. E delle mummie che pullulano nei posti di potere. Se volete
capire da dove nasce questa magnifica certezza, andate a conoscere Michela
Mancini. Giornalista in erba ma a un passo dal titolo che dà diritto al
fatidico tesserino. E prima ancora leggete quello che ha scritto e scrive.
Michela ha 26 anni. Da Catanzaro, liceo classico, è andata a Roma a frequentare
la Sapienza, studi in lettere e laurea magistrale in Editoria e Giornalismo,
con tesi in giornalismo di inchiesta. Titolo: “Cose di famiglia, figli ostaggio
della ‘ndrangheta”. Lode, sorriso tra i lunghi capelli neri, proclamazione. Poi
la scuola di giornalismo radiotelevisivo a Perugia. Quindi tre stage:  “Resto del Carlino”, Rainews 24 e Tgr
dell’Emilia Romagna. E a ottobre gli esami di stato per la professione. Il suo sogno.
“Far bene la giornalista, per raccontare la realtà, anche della mia terra. Proprio
questo vorrei. Un giornalismo non ridondante, che si cimenti con la scrittura
profonda, che entri nelle cose. Non mi piacciono le news che si bruciano in un
attimo. L’ideale sarebbe fare un giorno l’inviata per il servizio pubblico, che
vale di più perché sarebbe come servire il paese, oltre che per l’indipendenza
che assicurerebbe. Il genere di giornalismo che preferisco? Intendiamoci, lo so
benissimo che devo essere pronta a occuparmi di qualsiasi cosa. Ma la mia
passione è la cronaca giudiziaria. Il racconto della giustizia e
dell’ingiustizia. A proposito, l’ha letto ‘Morte di un uomo felice’ di Giorgio
Fontana? Per me è stato importante”.  La
giustizia. In fondo è stata la materia della sua tesi di laurea, per la quale
ha appena ricevuto il premio “Tramonte”, completato da un secondo posto per il
premio al giornalismo di inchiesta, sezione giovani, istituito dal Gruppo dello
Zuccherificio di Ravenna, vinto grazie all’articolo che ha tratto dalla tesi
per Libera Informazione. Un tema assolutamente nuovo, che sfida coscienze ma
anche convenzioni: quello dei minori delle famiglie di ‘ndrangheta sottratti
alla patria potestà e affidati a comunità dove  possa sfuggire a un destino di violenza e di
morte. Michela ha studiato sodo sul materiale accumulato dal Tribunale dei
Minori di Reggio Calabria, oggi presieduto da Roberto Di Bella. E ha lavorato
su storie una volta impensabili, frutto delle fratture che la civiltà calabrese
sta liberando al suo interno. Famiglie che rifiutano in cuor loro la
predestinazione alla ‘ndrangheta, e dove iniziano le defezioni femminili,
talora con finali drammatici. Michela racconta nel suo articolo la storia di
“Luca”, che la madre accetta di buon grado di consegnare alla giustizia
minorile, d’accordo con i fratelli già “avviati”, visto che “è la prima volta
che un giudice si occupa di noi”. Ecco. Una magistratura spesso infarcita di
complicità silenti oggi arriva a contestare la patria potestà dei boss. Chi
nutriva perplessità su questa pratica (come il sottoscritto) deve ricredersi
davanti ai fatti, e alla prosa asciutta ma guizzante, ma sensibile, di Michela.
“Al liceo nessuno mi aveva parlato di mafia. Ne ho sentito parlare per la prima
volta all’università, sono dovuta andare a Roma. E da Roma mi ero messo a
collaborare con ‘Il Domani’, un quotidiano calabrese che ora non c’è più,
editorialmente non è stata una bella esperienza. Però fu proprio per quel
quotidiano che ne scrissi la prima volta. Andai per i fatti miei a Lamezia per
la prima edizione di ‘Trame’, il festival dell’editoria antimafia. E lì scoprii
un mondo che non conoscevo. Per la prima volta vidi la mia terra con un occhio
diverso. Ascoltare quelle storie fu un pugno nello stomaco. Mi dissi che quella
era la mia realtà, che dovevo farne parte. E scriverne. Così nella mia vita ci
fu una discontinuità. Come quando impari a camminare, o a mangiare. Sei diverso.
Ho fatto cose da matti anche per Telejato, la tivù di Pino Maniaci. Ho scritto
per ‘I Siciliani Giovani’ di Riccardo Orioles.



Ma attenzione, io voglio fare la brava giornalista, non la militante antimafia, voglio sfuggire al rischio delle verità preconfezionate. Il problema in Calabria è fare bene il proprio mestiere. La mafia si combatte così. Mio padre facendo bene e onestamente il funzionario regionale, mia madre facendo bene l’insegnante e formando a nuovi valori i ragazzini. Io facendo con coraggio e bravura la giornalista. La Calabria sta cambiando. Guardi, quando sono stata premiata per l’articolo su ‘Libera Informazione’ e sono venuti i ragazzi del presidio di Libera Catanzaro, io ho pensato con ammirazione ‘Ma guarda, mentre io me ne sono andata a Roma questi sono rimasti a prendersi cura della mia terra’. Stiamo conoscendo una stagione nuova, mi creda”.
Certo, Michela. Ma che ne dice di questi “rappresentanti della Calabria” che danno dei razzisti a chi denuncia la ‘ndrangheta? “Io dico che l’onore della Calabria si difende con i fatti. Che vuol dire che se denuncio la ‘ndrangheta offendo la Calabria? Che allora non parlo più? Che devo stare zitta, immobile? Immobile come la Calabria che questi signori ci hanno consegnato? Io non ci sto”. Già, Michela. Come le mummie no.

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