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Addio a Iaia, tata d’altri tempi
Il Fatto Quotidiano, 17.8.14
Aveva un cognome importante, Guttuso. Ma era pura omonimia. Anche se nel
celebre quadro della Vucciria sarebbe stata perfetta, neanche un pastore in un
presepio, con suoi ricci neri a scegliere il pesce o ad auscultare il cuore
delle angurie. Rosa Guttuso era una donna come non ce ne sono praticamente più.
Figlia di un carrettiere siciliano e dei bassi di Palermo, era arrivata nel ’50
“a servizio” in una casa della borghesia palermitana, di fronte alle ville
Liberty che in poco tempo la mafia avrebbe fatto saltare col tritolo, nella
speculazione più sfrontata della storia nazionale.
Si innamorò subito di quella famiglia numerosa e allegra in cui diventò in
pochi anni una figura centrale, la tata che dà sicurezza ai bimbi che
crescono, da mettere in ordine al
mattino e da radunare e contare al tramonto. Benché non avesse studiato (aveva
solo la seconda elementare), sapeva il garbo e la buona educazione. Non si
risponde male, non si dicono le parolacce “da vastaso” e ci si pettina prima di
uscire. La famiglia benestante, ricca di relazioni sociali, le affidò il
compito supremo: accudire la piccola tribù dei figli, vestirla, farle da
mangiare, pacificarne le liti (“che picchiulìa!”), darle pillole della sua
saggezza popolare. Lei accolse quella consegna con orgoglio e dedizione. La
praticava tutti i giorni, dal mattino a tarda sera, avendo in casa una stanza
riservata a lei. Quella in cui lavorava divenne presto la “sua” famiglia, da
cui non si sarebbe mai più staccata. Tanto che vi coinvolse anche la mamma
(adibita al bucato prima che arrivasse la lavatrice) e la sorella, che faceva
da sartina. Lì conobbe le meraviglie del benessere e della modernità, come se
avesse compiuto un improvviso salto di classe sociale. I bimbi amavano i primi
“urlatori”, come erano chiamati allora Celentano e Mina; lei invece amava
Giacomo Rondinella, purissima canzone napoletana, che le era “simpatico” per
dire “bello”. Imparava le parole forbite della famiglia ma ogni tanto le
storpiava creativamente come Peppino De Filippo nel famoso personaggio di
Pappagone. La pasta al dente diventava “ardente”, non è un granché diventava
“gronché”, forse in assonanza con il nome dell’allora presidente della Repubblica
.
La amavano anche gli amici dei “suoi” ragazzi -tra cui finii anch’io nei miei
soggiorni palermitani-, che imparavano a darle regolarmente del tu. Sempre
invitati a frotte a fermarsi a pranzo o a cena, avrebbe cucinato lei per tutti.
Melanzane impanate o pasta coi broccoli in padella. Regalava aria di festa, e
non ce ne accorgevamo. Toccò l’apice della felicità quando un giorno la signora
le disse che per lei era più importante della regina d’Inghilterra. Rosa
quarantenne, Rosa cinquantenne, e intorno a lei cresceva un segmento della
futura classe dirigente di Palermo.
Era molto religiosa. Di quella ingenua religione popolare che rasenta a volte
la superstizione. Così quando il più grande dei ragazzi fu colpito, prima dei
trenta, da una leucemia, lei si rivolse con fiducia a Santa Rosalia perché
glielo salvasse, convinta di avere tutti i titoli per ricevere la grazia. Non
andò così, purtroppo. E lei se ne rammaricò, pensare che era andata a
chiedeglielo anche nel giorno della Santa patrona.
Vedeva gli amici dei “suoi” ragazzi diventare professori, medici, ricercatori,
professionisti, alcuni li vedeva andare fuori dalla Sicilia, al nord, in
Toscana, a Roma, e attraverso di loro, attraverso i “come stai” conosceva il mondo, lei che il luogo più lontano
da Palermo in cui era andata era Sant’Onofrio, a pochi chilometri di costa
verso est. Quando la mafia incominciò la mattanza degli uomini dello Stato, lei
che era figlia della Palermo più profonda disse che quelle cose erano terribili
e ingiuste, e dirlo allora non era acqua fresca. E quando il giovane sindaco
Leoluca Orlando si mise a contrastare la mafia, lei guardò a lui con fiducia,
rassicurata dal fatto che tutti gli amici dei “suoi” ragazzi stessero dalla
parte del sindaco. Giocava sempre due numeri al lotto, vinse una volta sola
nella vita, e diede parte della piccola vincita al minore dei suoi ragazzi, proprio
come fosse suo figlio.
A un certo punto non ce la fece più. Di colpo si accorse che faticava. I
ragazzi avevano lasciato la casa uno dopo l’altro. Se ne andò al quartiere
popolare di Sampolo, lei e la sorella in un piccolo appartamento al primo
piano. Una telefonata all’anno, forse meno, dagli amici che avevano riempito la
casa di gioia e a cui lei aveva fatto e dato festa senza risparmio. Sempre
chiedendo notizie dei loro figli, perché di tutti si ricordava. Palermo
cambiava ancora, e la “primavera” diventava una gelata. Con l’età Rosa divenne
sempre più piccola, minuscola. Così per avere qualche rapporto con il mondo, lo
stesso che prima le entrava in casa a tutte le ore del giorno, si metteva al
balcone per vedere passare la gente, issandosi su un predellino per sporgersi
meglio al davanzale. Vederla così un
giorno fu una malinconia.
L’altro ieri se ne è andata, spegnendosi come una candela. E io sento il dovere
di raccontare questa storia italiana, che parla di migliaia di donne come lei,
andate nel dopoguerra a trovare la loro “vera” famiglia in un’altra casa, per
finire la vita in solitudine. Nelle loro storie c’è una grandezza pari solo
all’ingiustizia della loro fine.
Nando
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