Le tante vite di Silvia, all’ombra di tre Maestri

Il Fatto Quotidiano, 31.8.14

Dice che l’entusiasmo è andato in vacanza, e che ci starà per molto. A
veder lei non si direbbe. Le brilla negli occhi quando capisce di sorprenderti,
o nel sorriso quando vuol dirti che in fondo è tutto così semplice e
fantastico. Silvia Imperadori ha appena passato i quaranta e la sua vita è già
una frenesia di date, luoghi, progetti, aziende. Un elenco da far girar la
testa.
E allora vale la pena riassumere in tre grandi maestri la storia di questa
giovane donna di sangue bresciano che sta facendo la manager del no profit nel
cuore di Londra. Il primo maestro è un professore che Silvia incontra a Pavia
quando va a studiarci giurisprudenza partendo dal paese natale di Iseo. Si
chiama Vittorio Grevi, giurista galantuomo. "Spiegava la procedura penale
con una chiarezza cristallina, gli studenti lo temevano perché era severo, ma
aveva passione e li coinvolgeva. Una volta ci portò, come diceva lui, in ‘gita
penitenziaria’. Tre giorni a Roma, a visitare Regina Coeli, Rebibbia e gli
altri istituti di detenzione. A parlare con detenuti, secondini, e personale di
assistenza. Rimasi colpita nel trovare lì con ruoli di responsabilità delle
figure femminili. E ricordo che pensai allora per la prima volta che mi avrebbe
fatto piacere lavorare in quel settore. Anche se non avevo proprio il carattere
per dirigere un carcere".
Dopo di allora Silvia mescola il volontariato con la professione in azienda, in
un fitto andirivieni tra banche e istituti finanziari, acquisizioni,
concentrazioni e dismissioni. A Milano collabora con il Centro di aiuto al
bambino maltrattato e alla famiglia in crisi, con case famiglia a Quarto
Oggiaro. Va a Londra in uno studio legale dai clienti ricchissimi (il fratello
di Lady Diana, le Spice Girls…) che dedica un proprio dipartimento alla sottrazione
internazionale di minori ("questione importante in una società
multietnica, qui non se ne aveva idea"). Scopre anche di essere piuttosto
brava nel dare fondamenta ai nuovi affari quando la mandano a Dublino ad aprire
la filiale della Bipop-Carire (Banca popolare di Brescia e Cassa di risparmio
di Reggio Emilia): "La mia vita aziendale è stata questa: andare a
fondare, a costruire, poi lasciare il campo ad altri. A Dublino i
rappresentanti di banche, aziende e istituzioni mi chiamavano ‘la ragazzina della
Bipop’, a me piace allacciare le relazioni, scovare i talenti, organizzare. Poi
arrivano i manager aziendali". Insomma: missioni brevi, concentrate e
molti colpi di scena.
Finché fa il suo ingresso il secondo grande maestro, stavolta solo a distanza.
E’ Yunus, il teorico del microcredito, l’uomo che con il suo pensiero ha
rivoluzionato pezzi di teoria economica e sociale. Silvia lo legge, ne rimane
affascinata e si chiede se invece del mondo degli affari che è abituata a
praticare non ci sia anche in Italia qualche forma di finanza etica, capace di
cimentarsi con il vangelo che conquista le nuove generazioni. Si guarda intorno
e la trova. C’è Paolo Brichetti, innovatore bresciano ("praticamente un
genio"), che viene da vent’anni di Altromercato, impegnato sull’India,
raccolta fondi per piccole finanziarie
locali, così da aiutare le più minuscole forme di imprenditoria, dalle macchine
da cucire al carretto per portare la frutta. Cambia la prospettiva geografica,
sociale, "l’India ha uno-due milioni di potenziali clienti". Un
giorno che prende l’aereo per l’India da Milano, non fa nemmeno in tempo a far
scalo a Zurigo che il suo vicino di posto le offre di lavorare con la propria
Onlus, Acra, Associazione per la cooperazione rurale in Africa e in America Latina.
Viene mandata in India sempre per progetti sociali; poi in Tanzania, Mozambico,
Zanzibar, Camerun. Finché scopre che, gira e rigira, "il mio passato di
avvocato continuava a inseguirmi". La forza di gravità degli accordi e dei
verbali e delle clausole: per questo c’è la Silvia, no?

"Mi venne allora l’idea dell’anno sabatico. Dicevano tutti che ero matta a lasciare un posto di lavoro con questa crisi. Ma io volevo fare i conti con me stessa, e sono ripartita dalla città che mi aveva dato più libertà e felicità, Londra.". Ed è qui che entra in scena il terzo grande maestro, stavolta una donna, un’iraniana dal nome strepitoso: Camila Batmanghelidjh. Psicoterapeuta di Teheran, fondatrice di una "Charity" (ossia di una organizzazione che promuove aiuto/supporto sociale) tra le più importanti del Regno. "Kids Company" si chiama, bimbi e ragazzi difficili, dai 4 ai 23 anni, gangs comprese, che vive di contributi governativi, 5-6 milioni all’anno, e di contributi privati, bancari, istituzionali, circa il triplo. "Ho iniziato lì come volontaria, la Charity ha sei centri di strada solo a Londra e si occupa di una quarantina di scuole lavorando su 18mila bambini. Si dà loro prima accoglienza, servizi, borse di cibo, assistenza psicologica, ci sono centoventi persone pagate. E’ una cosa grande, Camila ha una capacità straordinaria di costruire ma anche di raccogliere fondi. Io ora faccio la senior manager delle risorse umane, anzi ho un nome bellissimo che in Italia non esiste: "staff well-being manager", vuol dire che devo garantire equilibrio, soddisfazione e armonia in un personale che si misura con le questioni più dure e complesse. Sì, mi occupo di aiuto sociale con un buono stipendio. In Italia nel volontariato non è previsto. Forse solo Emergency e il Cesvi hanno capito l’importanza dei ruoli manageriali. E’ un circolo vizioso. Spesso queste figure mancano perché non si hanno soldi, ma non si hanno soldi e non si è efficienti perché mancano queste figure…E’ una questione importante. Che cosa farò in futuro? Bella domanda. Io sono un po’ nomade. Sa che le rispondo? Finché imparo resto qua.". E per una che ha avuto tre grandi Maestri non dev’essere una frase detta a caso.

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