Luciano, un matrimonio oltre la Sla. E oltre le siepi

Il Fatto Quotidiano, 14.9.14

Un matrimonio così si vede una volta sola nella
vita. Non per lo sfarzo, né per la meraviglia dei luoghi. Ma per altre ragioni,
più graffianti nella loro infinita delicatezza. Che entrano nella pelle e inchiodano
le immagini a qualche pezzo d’anima.
Il primo protagonista è Luciano. Che esce dalla stanza dove è stato preparato e
vestito con cura. Camicia di raso grigia, elegante gilet bordeaux. Intorno le
colline astigiane che accolsero lui e Alba, l’altra protagonista, quando si
sposarono civilmente diciotto anni fa. Accompagnato da un piccolo gruppo di
amici, scende sul viottolo che porta alla minuscola cappella sotto casa, antico
segno della devozione contadina. Luciano scruta le decine di invitati,
un’ottantina in tutto, che gli si assiepano intorno. Quando li vede i suoi
occhi hanno lampi di sorriso, come se la forza sovrannaturale dell’amicizia
sfondasse la corazza maledetta che lo imprigiona. Perché Luciano, oggi verso i
sessantacinque e un giorno compagno di università di chi scrive, da qualche
anno ha la Sla. Giunta a tradimento per fare poi il suo mestiere ufficiale con
regolarità, senza imprevisti. Fino alle mani, e a tutti i muscoli. E alla
tracheotomia per continuare a respirare. Gli occhi no, resistono, lo fanno
comunicare con il mondo, gli donano espressione. Luciano Nattino è personaggio
noto nell’astigiano, ma anche nel Piemonte che sa di politica e cultura, tanto
da avere meritato, proprio in vista di questo matrimonio, una bellissima pagina
da Carlin Petrini sulla “Repubblica” di Torino. Laureato in lingue alla
Bocconi, fu tra i protagonisti di una contestazione che portò le autorità accademiche
a chiudere per rappresaglia in pochi
mesi la facoltà pensata per gli interpreti.  Poi si dedicò ai suoi molti progetti pubblici.
Insegnante, diventò assessore all’Istruzione, punto di riferimento nel Pci di
Asti, e la passione infinita per la riscoperta delle tradizioni popolari, che
andò a riprendersi tra le campagne e le colline. Rimettendole sapientemente in
scena. Le feste, gli amori, il lavoro, le processioni religiose. Autentici
paesaggi viventi e popoli itineranti, di giorno e di notte, tra canti e
liturgie. Cose fantastiche di cui era il regista discreto. Insieme con il
teatro civile, e la fondazione della compagnia del “Mago Povero”. L’uomo che manda sorrisi riconoscenti attraverso un
lampo impercettibile degli occhi, accompagnato su una complicata carrozzella,
ha scarpinato per decenni in cerca di tradizioni, di folclore, di letteratura
nascosta. La cappella rurale, così piccola -come è stato detto- “da non
contenere Dio”, è forse la metafora fiabesca di quel lavoro tenace e
intelligente. Tutti festeggiano. Festeggia soprattutto Alba, che trova in ogni
dettaglio motivi di risate e di allegria. Vestita di bianco, grida il suo amore
per Luciano. Lui ricambia facendo leggere durante la cerimonia quel che per lei
ha scritto con Silvana, antica compagna di università. Decanta lo “stupendo,
pazzesco, meraviglioso sentimento che Alba mi dimostra ogni giorno e che solo
superficialmente chiamiamo amore”.
Unica voce visibilmente commossa è
quella del vescovo di Asti, che ha vissuto negli anni l’avvicinamento di
Luciano, già prima della malattia, alle domande della religione. Camminatore di
domande, come si è definito.
Quando la piccola folla risale il viottolo e giunge allo spiazzo laterale della
casa, trova tavole imbandite di vino, di salami, di insalate russe (fatte dalla
signora Lella, la mamma di Alba), di formaggi della gonfia terra piemontese.
Luciano ringrazia dal suo computer speciale. Scrive puntando gli occhi sulle
lettere dell’alfabeto. E i destinatari, avvertiti, leggono i suoi messaggi. Poi
un improvviso suono di fisarmonica e tamburello giunge da dietro l’orto,
tredici, quattordici donne e uomini in costume spuntano dal verde con gesti di
danza intonando musiche contadine. Allegre e licenziose. Quasi che le tradizioni
popolari venissero anche loro a festeggiarlo. Gli si dispongono intorno, lo
accarezzano con la dolcezza e lo sberleffo delle strofe. I grembiuli e le
camicie bianche delle donne, i cappelli e i panciotti scuri degli uomini. E’ proprio
il suo teatro. Che lo ha portato a mettere in scena in luglio uno spettacolo
(“Un regalo fuori orario”) che ha stordito di bellezza la critica, e che andrà
a Parigi. E’ il suo teatro che continua.

Nonostante tutto, a dispetto di tutto. Lo conferma sottovoce un’attrice. Ci vediamo con regolarità, confida, e discutiamo delle nuove sceneggiature. Dà i suoi suggerimenti. Certo che ci riesce. Anzi, siccome deve scriverli puntando l’occhio sul computer, è diventato conciso, ha acquistato un dono di sintesi acutissimo, è ancora più bravo.
Mi avvicino a Luciano. Gli ricordo un episodio che ho letto sul giornale. Di quando scelse di abbandonare l’insegnamento per dedicarsi al partito, e versò al partito tutta la sua liquidazione. “Te la ricordi la liquidazione, Luciano? Ma oggi chi lo farebbe?”. Luciano ride con gli occhi verdi, come prima; ma stavolta ride così di gusto che vien fuori perfino un piccolo, miracoloso movimento della mascella. Anche quelle donazioni, un giorno, fecero parte delle tradizioni popolari. Perciò nella risata c’è un pezzo di storia. Di Luciano, del suo partito. Di un’altra Italia. Pronta a spuntare ancora gioiosamente fuori dalle siepi.

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