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Scarpinato: quella lettera che ricorda il tritolo dell’Addaura
Il Fatto Quotidiano, 12.10.14
Come vede, sappiamo prenderci cura di Lei. Questo
il senso, sconvolgente, del messaggio anonimo lasciato sulla scrivania del
procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato alcune settimane fa, e
seguito da altri avvertimenti. Chi ha esperienza e memoria di queste cose
capisce al volo che in questo messaggio c’è qualcosa di profondamente diverso da
tanti altri generi letterari e pratici dell’intimidazione mafiosa. Basta
rimettere insieme le tessere. Il destinatario, anzitutto: il massimo
responsabile dell’attività investigativa giudiziaria palermitana, una delle
maggiori memorie antimafia, notoriamente capace di connettere le singole
vicende in quadri ampi e dotati di senso storico. Il luogo: il suo ufficio,
riservatissimo, a cui dovrebbe avere accesso diretto solo il titolare, anche se
poi si è scoperto che per ragioni inspiegabili non era così. Più esattamente la
sua scrivania. Una forma di visita a domicilio, una vicinanza incombente, un
fiato che si fa grilletto. Il messaggio: un invito ampolloso e letterario, di un
emulo di Sciascia si direbbe, a non superare i confini che altri, ovvero poteri
superiori e impersonali, hanno fissato a un magistrato già andato troppo oltre,
nella carriera, rispetto a ciò che è normalmente consentito a quelli come lui.
Non l’immagine del sangue ce ne arriva. Ma quella dei corridoi oscuri che
avvolgono e si compiacciono di dare consigli affettuosi alla vittima, per
risparmiarle gli esiti che “altri” stanno scalpitando per ottenere. La data,
forse non casuale, visto che ha segnato una svolta nei rapporti tra mafia e
Stato, pesando sulla stessa attività professionale di Scarpinato: il 3
settembre, anniversario dell’assassinio del prefetto dalla Chiesa. Le
circostanze logistiche: un ingresso furtivo ripreso dalle telecamere esterne,
la cui memoria, però, è stata poi cancellata proprio nei punti interessati,
verosimilmente da persona diversa da chi ha scritto la lettera.
E il contesto recente: il “protocollo Farfalla”, che ha messo in luce lo
scenario di servizi segreti che entrano ed escono dalle carceri per avvicinare
detenuti al 41 bis, senza lasciare tracce, all’insaputa della magistratura.
L’intenzione del procuratore di vederci chiaro, poiché sa bene che la storia
maledetta dei rapporti tra mafia e Stato è zeppa di inquinamenti, di verità
giudiziarie manipolate, da Portella della Ginestra a via D’Amelio. I servizi
che escono ed entrano nelle carceri senza lasciar tracce ricordano Raffaele
Cutolo che si fa Stato e la liberazione di Ciro Cirillo. Ricordano il tentativo
(per fortuna non riuscito) di mettere in contatto Patrizio Peci, primo capo
brigatista pentito, con l’allora Sisde prima che con i carabinieri e la
magistratura. E certo se c’è qualcuno che per definizione non può avere
frequentazioni “segrete” è ogni singolo mafioso al 41 bis, a cui il carcere
duro viene comminato proprio per impedirgli di avere contatti con il mondo
esterno.
Si intuiscono dunque i soliti intrecci “inquietanti”. Che stavolta hanno scelto
di materializzarsi sulla scrivania del procuratore colpevole di aver capito
troppo. Avrebbero potuto raggiungerlo in altro modo, con le sembianze di un
collega o di un alto grado ministeriale capace di dargli un consiglio “nel suo
esclusivo interesse”, se solo Scarpinato fosse incluso nella lista degli
“avvicinabili”. Ma Scarpinato non vi figura. Quella lettera manda dunque i
bagliori del pericolo, piena fra l’altro com’è di riferimenti alla sfera
privata del magistrato. Non è una pallottola in busta, che quasi chiunque può
mandare. Non è una telefonata minatoria. Non è una voce di attentato o una
maledizione di Totò Riina. C’è un salto di qualità. Per questo sorprende,
ancora oggi, l’imbarazzato silenzio di tanti Palazzi. O la sottovalutazione di
ambienti anche assai reattivi, come fossimo davanti a una delle tante minacce
che giungono a chi è esposto sul fronte della lotta alla mafia. Perché nemmeno
le celebri lettere del Corvo del Palazzo di Giustizia di Palermo contro Falcone
bastano a rendere l’idea. Quelle andavano in giro, non apparivano impunite e
melliflue sulla scrivania del giudice; tendevano a delegittimare, a colpire nel
prestigio un magistrato circondato da invidie e gelosie inestinguibili. Qui,
per certi aspetti per fortuna, non è così, perché la magistratura è cambiata e
Scarpinato non è isolato in quello che fu il Palazzo dei veleni. Se vogliamo
rimanere alla parabola purtroppo esemplare di Falcone, la lettera assomiglia
piuttosto alle borse di tritolo dell’Addaura. Lì stavano “il gioco grande” e
“le menti raffinatissime” di allora.
Perciò occorre la massima attenzione. La testimonianza di Napolitano al processo sulla trattativa, questione mediaticamente assai più ghiotta, rischia di monopolizzare per settimane lo sguardo del paese che “dalla politica arriva alla mafia”. Chi invece “dalla mafia arriva alla politica” (che è poi il percorso intellettuale dello stesso Scarpinato) colga la gravità dei segnali attuali. Governo e istituzioni, cittadini e associazioni, stampa libera e scuole, sappiano fare diga intorno al procuratore generale di Palermo. Leggendo con intelligenza l’agenda della mafia e dei suoi complici. Alzando la partecipazione e la vigilanza civile. Senza accontentarsi dei facili “mi piace”. Questo, purtroppo, non è un mondo virtuale.
Nando
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